Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-Lorena, nota storicamente come Maria Antonietta, rappresenta l’ultimo baluardo dell’ancien régime francese. Ultima regina di Francia, era una donna determinata, ostile a ogni concessione ai rivoluzionari, ferma sostenitrice della monarchia assoluta. Fu condannata a morte dopo una sentenza di alto tradimento (senza evidenti prove) e sottoposta alla ghigliottina. Circa 250 anni dopo, benché nell’immaginario comune, quando si sente Maria Antonietta, il più delle volte il pensiero volge alla consorte di Luigi XVI, in un altro immaginario, un po’ più piccolo – quello dell’indie italiano, qualunque cosa voglia essere – la mente va invece a Letizia Cesarini, in arte, appunto, Maria Antonietta.
Descrivere Maria Antonietta e la sua produzione musicale con qualche aggettivo è un’impresa abbastanza ardua. Ci si potrebbe soffermare sulla presenza costante della religione e delle agiografie, con Gesù, Maria Maddalena e le Sante come protagoniste di molte canzoni, oppure sull’attenzione ai personaggi femminili della storia e della letteratura, come Giovanna D’Arco o Sylvia Plath, o ancora sulla chitarra che accompagna la voce scanzonata e penetrante. Si potrebbe mutuare il lessico da alcuni tra i temi ricorrenti nei suoi brani, come la delusione, le ossa rotte, le promesse, ma qualcosa inevitabilmente rimarrebbe fuori e fornirebbe un’idea, se non errata, quantomeno parziale. E allora, forse, per guidare all’ascolto di Maria Antonietta, si può partire da qualche anno addietro.
ATTO I – Adesso, sai, io scrivo canzoni, perché credevo che rendesse in qualche modo migliori
Dopo un primo album in inglese, pubblicato con lo pseudonimo di Marie Antoinette, di cui oggi rimane traccia solo su Youtube e MySpace (ammesso che qualcuno si ricordi la password del proprio account), che svela un’artista punk, martellante, a tratti quasi folle, l’esordio discografico arriva nel 2012, con un disco omonimo e prodotto da Brunori SAS. Devo sempre controllare tre volte quando guardo la data di uscita, perché quando mi capita di ascoltarlo oggi, undici anni dopo, mi sembra così attuale che fatico a credere che siano passati già undici anni, o allo stesso modo che qualcuno undici anni fa abbia scritto un album che, se uscisse oggi, nessuno etichetterebbe come fuori moda o vintage. Maria Antonietta si presenta all’Italia come una sfacciata artista punk, disperata quando serve, consapevole ma fiera dell’incoscienza dei vent’anni, a suo agio solo con una chitarra acustica e priva di timore reverenziale nel paragonarsi a certi personaggi biblici, di cui conosce a memoria le agiografie.
L’album si apre con Questa è la mia festa, un inno al rivendicare uno spazio di centralità, un momento in cui tutti ti guardano e a tutti piaci, senza dimenticare l’introspezione e le nozioni di sé che si sono apprese col tempo. In tutti gli altri pezzi del disco, si trova qualche frase, qualche riff di chitarra elettrica, qualche entrata della batteria che rimane impressa, e che soprattutto svela una Maria Antonietta a suo agio nelle vesti di rockstar, di icona punk, di teologa, di pensatrice sarcastica – sempre con la medesima credibilità. Parlo, per esempio, di quando, in Con gli occhiali da sole, canta adesso, sai, io scrivo canzoni, perché credevo che rendesse in qualche modo migliori; quando in Quanto eri bello si dispera mentre bevo un martini con l’aspirina abbracciata a un uomo che non assomiglia a te, o ancora, di quando indossa i panni di una Maria Maddalena invecchiata, o quando grida che avrebbe voluto essere come Santa Caterina, perché lo sai come ci si sente, avere vent’anni e non avere mai imparato niente.
Se il primo album in inglese, lo possiamo considerare una sorta di album zero (alla pari delle date zero dei tour), la vera prova del nove, il cosiddetto sophomore album, arriva nel 2014 per La Tempesta Dischi: Sassi. Suonato insieme a Giovanni e Marco Imparato, dischiude una Maria Antonietta diversa, meno immediata, più ricercata e più introspettiva. Pochi sono gli incisi urlati, altrettanto poche le frasi ad effetto icastiche e martellanti; del punk del primo disco, rimane traccia solo in Ossa, il pezzo più grunge, e la chitarra acustica viene sostituita via via dall’organo, dalla batteria, persino dal pianoforte. Certo, ci sono alcuni punti evidenti di contatto con il lavoro precedente, primo su tutti il riferimento costante alla religione: in Galassie, l’artista dice di non essere come Dio, perché sceglie solo per sé; in Abbracci ci ricorda che Gesù disse “chiedi e ti sarà dato”, fino ad arrivare a Tra me e tutte le cose, dove l’hook “andate in pace” disegna i contorni del pezzo. Sassi, insomma, è un album senza un singolo trascinante, senza una hit, con le produzioni più complesse rispetto al disco precedente, che però ricorda una cosa: che Maria Antonietta non è arrivata per sbancare i botteghini e per conquistare la Top Ten, per desiderio di viralità o per necessità di fama, bensì per una volontà ben precisa di fare musica, un tipo che musica che richiede soprattutto pazienza. Ed è forse questa, tra tutte, la cosa meno attuale dei primi due album, se uno pensa all’industria discografica alimentata da TikTok e da coreografie di dubbio gusto su pezzi di gusto altrettanto dubbio.
ATTO II – Io non ho intenzione di deluderti
Tra il 2014, anno di pubblicazione di Sassi, e il 2018, quando uscì il terzo album, Deluderti, di base è successa una cosa: è arrivato Calcutta, e la gente ha iniziato a prendere coscienza di cose come il Frosinone in Serie A, i rulli, i tamburi, le danze kuduro, e via dicendo. Il mondo della musica indie – di nuovo, qualunque cosa voglia essere, ma intendo proprio quella cosa lì – è cambiato, è diventato più accessibile, meno spocchioso, si alimenta di ritornelli scritti per essere cantati a squarciagola, è fatto per essere un momento di condivisione non più intimo, bensì comunitario, che vada a coinvolgere quante più persone possibili. Ed è chiaro che un album che esce per La tempesta dischi nel 2018 deve tenere conto di questo. Mi spiego meglio: se in Maria Antonietta c’erano pezzi urlati, attitudini punk, violenza musicale come medium per farsi sentire, in Deluderti la produzione, benché i pezzi non siano poi così diversi dagli esordi nell’intenzione, è molto più pop e, per certi versi, accessibile.
Come nei migliori dischi indie di quel periodo, è un album prodotto per poter arrivare a tutti, e per rendere le condizioni di disagio descritte riconoscibili ma anche piacevoli all’udito. Il concept dell’album è la delusione come atto liberatorio: concedersi di deludere le aspettative, e godere dell’ebbrezza mentre lo si fa. Come lei stessa disse, la delusione è l’unico modo per combattere le aspettative e l’ansia sociale che ne deriva, e saperla abbracciare e accettare è una vera e proprio rivoluzione. Meno donne forti e antipatiche, meno santi e meno agiografie, ma la stessa sincerità, la stessa introspezione, e una voglia rinnovata di confrontarsi con una società che spesso pare inarrivabile e crea delle ansie inutili: è questa la Maria Antonietta di Deluderti, ed è questo il viaggio dalla title track alla cover di E invece niente dei Tre Allegri Ragazzi Morti che chiude l’album. Sulla carta è il quarto album dell’artista, ma è il secondo uscito per La Tempesta – e pertanto, è un sophomore album sui generis. E come tale, porta la consacrazione dell’artista, che ha saputo reinventarsi per diventare contemporanea senza farlo per moda, ma mantenendo intatta la necessità e la verità dei suoi pezzi. Non male, direi.
ATTO III – Se un giorno, baby, mi ricorderai
Anticipato dai due singoli Arrivederci e Per le ragazze come me, in duetto con Laila Al Abash, a Maggio del 2023 è (finalmente) uscito il quarto disco di Maria Antonietta. Il titolo, La tigre assenza, è un omaggio a Cristina Campo, e ancor prima dell’uscita è stato parzialmente suonato in quattro date speciali, dove i nuovi brani si intrecciavano con i pezzi di cui abbiamo discusso sopra.
È un album frutto di anni di scrittura e di collaborazioni, come quella con Francesco Bianconi, autore di Viale Regina Margherita, uno dei pezzi più riusciti del disco, che propone una Maria Antonietta a metà tra Amy Winehouse e Ornella Vanoni, regina dello spleen, ancor più punk di quanto lo fosse stata in passato, se non per le produzioni sicuramente per l’intenzione dei pezzi. I pezzi sono melodici, estremamente ritmici, con i bridge spesso cantati e ripetuti in un modo quasi soul, con la voce di Maria Antonietta che modula le intonazioni e conferisce significati diversi alle medesime parole, ripetute in fila. Rimangono le rivendicazioni disattese (il paradiso costa poco, ma dopo non mi basta, canta in 375), la bonaria arroganza (se fossi nata nel futuro, io non avrei sbagliato mai, in Diamante) e il ricorso a ritornelli che possano fungere da stimolo per aggregazione e comunità. Ma soprattutto, rimane una Maria Antonietta per certi versi fuori dai tempi, certamente fuori dalle mode, ma mai fuori fuoco o fuori dalla verità.
Qui sotto le date del tour estivo (date in aggiornamento)