I submeet, band Mantovana attiva soltanto dal 2016 ma già con un tiro degno di nota, dopo il successo del primo singolo “Moorland” nel novembre dello stesso anno, decide di registrare il loro debut EP intitolato appunto “submeet” ed uscito il 20 ottobre. Nel pomeriggio del giorno successivo, nel backstage del MU a Parma, appena finito il sound check per il release party del disco che sé tenuto durante la serata MILK, abbiamo fatto due chiacchiere.
Cosa vuole dire essere shoe-gaze nel 2017?
Significa riprendere in mano le redini di chi, un quarto di secolo fa, ha per la prima volta sperimentato la potenza nauseante del muro del suono. Affascinati da questo esperimento, abbiamo voluto interpretarlo a modo nostro, venendo da background diversi ma conciliabili.
E quali sono i vostri punti di riferimento?
Il gruppo a cui facciamo inevitabilmente riferimento sono i My Bloody Valentine, i primi a stravolgere il suono. Dopo di loro vengono Slowdive, Ride, Ringo Deathstarr e A Place To Bury Strangers, ma anche progetti post-punk (che è l’altra principale influenza) come Preoccupations, Interpol, The Soft Moon, Bauhaus e Joy Division.
Parlatemi un po’ del disco “submeet”. Che idee avevate riguardo al suono che avreste ottenuto una volta registrato l’album? Rispetta le vostre aspettative ?
L’idea era di avere un manto sonoro che pervadesse tutto l’album ritmato da basso e batteria, con voci che facessero da ulteriore strumento più che come mezzo per raccontare (anche se siamo stati molto attenti anche in quell’aspetto). L’album è uscito compatto e prodotto bene, anche se il nostro intento futuro sarà quello di spingerci a una sperimentazione più incentrata sul noise e al suono complessivo.
L’artwork è pazzesco!
Le immagini presenti nel nostro EP sono state glitchate, passate per un televisore a tubo catodico, poi fotografate. La copertina rispecchia la cupezza delle tematiche affrontate e la distorsione del suono, per questo abbiamo usato come espediente la glitch art che amiamo tanto, cioè la pratica di utilizzare errori digitali o analogici per scopi aestetici, danneggiandone i dati o manipolando fisicamente dispositivi elettronici.
Perché vi definite “muratori” del suono ?
Perché ognuno di noi ha un proprio ruolo affinché venga costruito il “muro del suono”: basso e batteria si occupano delle fondamenta e della costruzione della canzone, le chitarre e le voci ne danno corpo e sfumature, proprio perché frutto di layer sonori sovrapposti.
Il verso di una vostra canzone che meglio vi rappresenta?
“Submerged and blissful in rainbow colours and ethereal sound”
Obbiettivi che vi siete prefissati per il futuro ?
Suonare, suonare il più possibile così che il nostro personale esperimento venga conosciuto.
E proprio per questo continuare l’esperimento, mettendo sottoforma di canzone le nostre idee sulla manipolazione del suono e creare brani nuovi che rispettino e stravolgano l’immaginario dello shoegaze.