La cantautrice e musicista Maria Antonietta racchiude una rara sensibilità in sé: questa caratteristica è sempre emersa in maniera forte nella scrittura delle sue canzoni, ma ancora di più si fa viva tra le pagine del suo primo libro “Sette ragazze imperdonabili”, uscito il 19 marzo per Rizzoli e pronto (il debutto sarà domenica 19 maggio a Urbino) a diventare un reading musicale. È lei stessa a sottolineare l’importanza che le parole, in primis nella sua vita, e di conseguenza anche nella sua attività artistica, hanno sempre rivestito, in questa intervista che ha anticipato la sua performance di sabato scorso alla Galleria San Ludovico di Parma, in occasione dell’inaugurazione della mostra di Joan Cornellà.

La mostra di Joan Cornellà all’interno della Galleria San Ludovico (clicca per aprire l’evento e controllare giorni e orari di apertura) presentata da Abecedario d’artista in collaborazione con BDC

Con lei abbiamo parlato di poesia, musica, dolore, interiorità e quote rosa, tra una riflessione e una risata.

Le protagoniste del tuo libro hanno certamente dei tratti in comune: la loro sensibilità, il dolore che provano, le loro giovani morti. Come è nata l’idea di raccogliere queste sette scrittrici e poetesse in un libro e cosa rappresentano loro per te?
La scelta di queste sette figure è stata abbastanza naturale e lineare, perché effettivamente sono queste le sette maestre che mi sono state vicine negli anni della mia formazione umana, prima che artistica, e quindi la ragione fondamentale per cui ho deciso di scrivere il libro è che ad un certo punto sentivo di aver contratto un grosso debito nei loro confronti. Ecco perché ho deciso di farlo attraverso la formula del Libro D’Ore, che è il libro di devozione per eccellenza: anche nel mio libro, aldilà del fatto che sia un libro laico, c’è questo senso di devozione, un omaggio a queste sette ragazze imperdonabili, che effettivamente sono state quelle che mi hanno accompagnata per molto tempo, ragione per la quale anche io ho iniziato a scrivere poesie nel corso degli anni. Sono sempre state uno sprono anche per la mia creatività, un conforto, delle interlocutrici con le quali potevo confrontarmi, anche se da lontano, ed è per questo che sono dentro al mio libro: effettivamente sono tutte accomunate, aldilà delle differenze, da questo profondo sentimento di imperdonabilità. Ho scelto questo aggettivo forte proprio perché si tratta di un Libro D’Ore e per il cristianesimo il perdono è sempre contemplato, qualsiasi cosa una persona faccia; dunque la scelta di questo aggettivo in questo contesto è doppiamente forte, provocatorio. L’imperdonabilità sta proprio qui: nelle loro vite e ricerche si sono sempre e comunque prese il rischio di restare fedeli alla propria vocazione, a se stesse, di non semplificarsi mai in quello che facevano a costo anche di passare una vita piena di dolore e addirittura morire. Il sentimento di fedeltà mi è sempre sembrato qualcosa di molto alto e incredibile, che avevo voglia di condividere con gli altri, anche perché ci sono figure, come quella di Cristina Campo, abbastanza misconosciute a un pubblico più vasto e questo è un peccato: in questo atto di devozione ho anche voluto condividere, nella speranza che un lettore potesse imbattersi in qualcosa che fosse una scoperta.

“Ma cosa dovrei fare? Assecondare la volontà di tutti, come al solito si fa? Si dice che quella dei genitori sia sempre la volontà migliore, quella che conduce alla felicità dopo le nostre iniziali e legittime resistenze. Sposarmi, restare, radicare come una pianta. Ma io non posso appiattirmi sulla linea che la volontà degli altri mi disegna intorno” (dal capitolo su Jeanne d’Arc). Questo pensiero, che poteva essere attuale nel 1400, lo è anche oggi: come ti poni nei confronti dei doveri a cui la società ci costringe?
Sicuramente nessuno di noi è immune da una tradizione culturale molto forte che si fa ancora largamente sentire, tutti ne sono soggetti e ti porta, anche se ti senti molto libero, a farti spesso delle domande sul perché tu non provi certi desideri o ne provi di differenti da quelli che dovresti provare. Però la cosa più importante che mi è restata, nello studiare e leggere queste figure, è che aldilà della difficolta di avere una serie di domande che puoi porti, alla fine quando si tratta di agire e di comportarti e di fare occorre ascoltare davvero quella che è la tua natura, quello che senti nel profondo, senza dover compiacere nessun tipo di aspettativa, perché comunque non ti porta da nessuna parte. Diciamo che mi impegno tutti i giorni per essere abbastanza imperdonabile, anche se è un impegno faticoso (ride).

Nello stesso capitolo si parla dell’anima, del fatto che si possa spezzare a causa del giudizio degli uomini, anche se “è cresciuta tranquilla come un giardino di piante esotiche e il muro di cinta è alto e sicuro”. Tu cosa fai per prenderti cura della tua anima?
Il valore in generale di un’interiorità, come uno spazio proprio inviolabile, per me sta alla base della felicità e della realizzazione di te da fuori, nel senso che secondo me molto spesso tendiamo a pensare che la felicità e la realizzazione siano un fatto esteriore, che appartiene solo alla realtà fuori da noi. Invece mi è servito tantissimo leggere il diario di Etty Hillesum, altra protagonista del libro, proprio perché lei, ebrea negli anni dell’occupazione nazista in Olanda, si vede contrarre la propria libertà sempre di più, fino ad essere deportata e morire ad Auschwitz, dunque i due anni in cui scrive il diario non sono esattamente di gioia e libertà esteriore, però è paradossalmente proprio in quel momento e non prima che lei impara ad essere felice, a conoscersi e ad amare la vita per quello che è, apprezzarla davvero. Non tanto perché gliela stanno portando via, ma perché si rende conto di quanto sia molto più un fatto interiore di quello che si è soliti pensare. Ovviamente questo è un caso estremo: nella vita a volte io stessa mi creo degli alibi, uso delle scuse, però alla fine sta a te, e questo è un fatto strettamente legato alla tua interiorità e alla tua anima, alla quale devi comunque dedicare tempo sempre, perché l’anima non è un accessorio.

“Diciamo che mi impegno tutti i giorni per essere abbastanza imperdonabile, anche se è un impegno faticoso.”

Secondo te ci si nasce con la tristezza, il senso di smarrimento e il privilegio della sensibilità dentro o sono le circostanze della vita che portano a diventare in un modo anziché in un altro?
Credo che sia legato tantissimo alla tua infanzia e a una serie di contingenze che ti trovi ad attraversare, anche perché poi capita a volte che persone, sia simili che dissimili, incontrino le stesse esperienze e poi ognuno le elabori a modo suo e abbia un imprinting differente. Quindi non credo alla tristezza come destino, mi piace pensarla come un mezzo, e alcuni, che hanno sviluppato il privilegio della sensibilità, possono sfruttarla ed usarla per andare altrove. Poi quell’altrove quale sia chi può dirlo.

“Vorrei ci fossero miliardi di chilometri tra me e tutte le cose”. Come è nata questa tua frase?
È un sentimento che ciclicamente ritorna, quindi non è purtroppo legato a un momento specifico. Diciamo che puntualmente mi saturo di tutto e ho bisogno di astrarmi e alienarmi rispetto alla realtà, è per questo che mi sono sempre appassionata così tanto alla lettura, perché mi permette di alienarmi, che è una delle cose che preferisco fare in assoluto: quando ti alieni ci sono ovviamente molti chilometri tra te e tutto il resto, questo molto spesso ti permette anche di avere uno sguardo più lucido poi sulle cose, perché dopo un po’ perdi la lucidità quando stai sempre dentro e non stai mai fuori, e invece a me piace molto stare fuori.

Meglio essere sensibili, anche a costo di soffrire di più, o essere superficiali e lasciarsi scivolare le cose addosso?
Se c’è un dovere, in questa vita, per me è quello di fiorire, nel senso di realizzarsi. Ed è molto difficile secondo me riuscire a realizzarsi davvero quando non hai mai coltivato troppo la tua sensibilità, la tua empatia; il tuo metterti in discussione costantemente alla fine significa andare in crisi, molto frequentemente. Quindi alla fine onestamente io preferisco pensare molto, mettermi in discussione moltissimo per andare verso il futuro e verso la realizzazione, che poi non c’è mai un momento in cui avviene, o forse solo quando muori (ride) e hai assolto al tuo obbligo. È una visione molto romantica e per me va un po’ così.

Nel capitolo su Cristina Campo si legge: “Io che mi faccio scudo con le parole, che attacco con le parole, che finisco con le parole, non avevo capito che tu delle parole fai spesso a meno e preferisci cantare”. Ti fai anche tu scudo con le parole? E che valore hanno per te le parole nella tua musica e nel tuo libro?
Per me le parole sono sempre state molto centrali, nella vita in generale e come essere umano, anche quando non ero impegnata in questa attività ma ero solo una lettrice. Ora che invece sto portando avanti questa attività mi fermo spessissimo a pensare sulla responsabilità legata all’uso delle parole perché alla fine le parole, insieme al linguaggio, non descrivono mai la realtà ma la creano. Spesso invece in questa contemporaneità le parole vengono usate molto superficialmente, che siano le une o le altre è uguale, invece non è così per niente.

Ti sei mai imbattuta in un amore impossibile come quello di Antonia Pozzi?
Sì, decisamente. Lo sfrutti, impari a diventare una vampira rispetto a tutto questo.

Sei d’accordo sul luogo comune per cui nei momenti di tristezza, artisticamente parlando, tendono ad uscire le canzoni e le opere più belle?
Secondo me questo è un pregiudizio nei confronti della gioia, e mi fa incazzare perché in realtà gli artisti veramente bravi hanno scritto le canzoni quando erano felici. Secondo me qualsiasi sentimento che ti sposti dal tuo centro ti fa essere creativo e ti fa esprimere qualcosa, quindi tutti i sentimenti, a patto che siano veri e profondi, ti spostano sempre. Ho letto un libro bellissimo, “Nati sotto saturno”, scritto dallo storico dell’arte Wittkower, che sfata proprio questo mito dell’artista maledetto: nel corso della storia abbiamo sempre pensato che gli artisti che soffrono sublimino il loro dolore nell’arte, e invece lui critica questa idea stereotipata parlando di tantissimi pittori, e artisti, soprattutto rinascimentali, in chiave molto interessante e curiosa.

Maria Antonietta live in Galleria San Ludovico a Parma

Nel tuo libro parli di 7 ragazze che hanno un grande dolore dentro, e lo fai con una narrazione in prima persona, immedesimandoti. Questo fa pensare che tu stessa abbia un grande dolore dentro che hai necessità di fare uscire, ma parlando con te non mi sembra sia così..
In realtà sono sempre, perennemente aperta a tutti i sentimenti, non mi precludo niente, è tutto ugualmente interessante, purché questi sentimenti effettivamente si provino. L’importante è porsi senza un atteggiamento preconfezionato, non andare avanti per rimozioni. Io non vorrei mai trovarmi in questo tipo di situazioni, sicuramente scrivendo il libro di volta in volta componendo quei racconti poi facevo un esperimento anche psicologico di entrare dentro a quelle che erano di volta in volta le protagoniste, magari andando anche a ritrovare dei sentimenti molto simili a quelli di cui stanno parlando. La scelta di usare la prima persona nei racconti deriva dal fatto di trovare un modo per conciliare dei dati biografici, che però non volevo diventassero una gabbia a cui aderire per forza di cose, ed era l’ipertesto per poter usare i miei pensieri, per dire alla fine quello che volevo dire io. Dalla loro bocca si è creata un po’ di sfumatura tra i piani, volevo non fossilizzarle in modelli irraggiungibili. Io in generale sono un po’ diffidente nei confronti di quelli che si definiscono modelli ispirazionali, questa cosa non la sopporto, nel senso che tutti abbiamo bisogno di riferimenti, maestri, figure che ci spronino a essere migliori, però nel momento in cui diventano dei miti, delle icone che stanno là e tu sei qua, alla fine non ti parlano più, ti schiacciano e basta, risulterai sempre inadeguato rispetto al modello. Per questo, nelle loro vite, tutte queste donne non necessariamente vincenti o di successo sono state spesso tagliate fuori dai meccanismi editoriali, comprese molto dopo, nei racconti viene fuori spesso la défaillance, la crepa e la domanda piuttosto che la risposta di una che ha capito tutto. Questo mi sembra molto più interessante, vivo, vero e umano.

Tra queste sette ragazze imperdonabili quale senti più tua?
Al momento Marina Cvetaeva, però, una per la vita, direi Sylvia Plath (sorride).

Il tuo libro è composto esclusivamente da figure femminili, rispetto allo scenario musicale italiano attuale. Di fatti, emergono abbastanza spesso delle critiche, abbiamo visto i casi del concerto del 1° maggio a Roma e del Mi Ami, rispetto all’assenza di artiste femmine e alla necessità delle quote rosa. Secondo te cosa potrebbero fare, da una parte l’industria (etichette, organizzatori, addetti al settore) discografica e dall’altro le artiste, per valorizzare e includere le importanti figure femminili che abbiamo?
In generale sono contraria alle quote, mi sembra sviliscano e limitino, perché se un’artista di valore viene inserita dentro a un discorso di quota è come se automaticamente passasse il fatto che è lì perché ci sono le quote. A me dispiace sempre quando il mio lavoro viene giudicato o comunque la copertina del mio lavoro è il fatto che io sia una femmina: io vorrei che il mio lavoro venisse giudicato per quello che è in quanto tale. Poi ovviamente una donna avrà uno sguardo che le deriva dal fatto di avere un certo corpo, che le deriva dal fatto di inserirsi in una tradizione culturale di un certo tipo, però non esiste uno sguardo uguale all’altro, mi fa sempre incazzare tantissimo quando tu da donna fai musica e automaticamente c’è l’equazione con un’altra donna che fa musica: allora evidentemente dovete andare d’accordo o avrete la stessa poetica più o meno, tanto siete due femmine che suonano uno strumento, mi pare lineare, no, come ragionamento? Tutto questo è molto basso, poi per quanto riguarda la mia esperienza personale ho sempre avuto a che fare con discografici, agenti, musicisti sinceramente privi di qualsiasi tipo di pregiudizio o di preconcetto. Anzi, sono sempre stata molto supportata, amata e non posso lamentarmi della mia esperienza. Forse sono circondata da maschi speciali.

Credi dipenda anche dal pubblico?
Penso che un nodo importante sia anche il pubblico, il fatto che una serie di progetti femminili non incontri un largo successo ovviamente si lega al fatto che magari hai meno accesso ad alcuni spazi di visibilità, però incontrano anche una certa diffidenza nei confronti del pubblico, che a livello di tradizione culturale fa fatica nei confronti di una femmina che crea i propri contenuti, destabilizza questo tipo di cosa. Quindi ti spinge a fare un passo indietro, secondo me c’è da fare un lavoro culturale. Sarebbe bello se tutti si sentissero responsabili, anche quando hai il privilegio di avere la responsabilità di gestire uno spazio che ha una grande visibilità. Io penso che se da spettatrice del concerto del 1° maggio fossi una ragazzina di 13 anni e nello show mancasse un act con una femmina, sicuramente farei fatica a creare un’empatia del tipo “piacerebbe farlo anche a me”, infatti la ragione per la quale ho iniziato a suonare è aver visto Courtney Love che faceva questa cosa, è stato comprare i suoi dischi e vedere lei che si truccava in un certo modo, si poneva in un certo modo, scriveva quello che voleva ed era veramente sbruffona e questa cosa per me è stata incredibile, ho detto “anche io lo voglio fare”. Però se non ci fosse stata lei magari mi sarei dedicata a un’altra attività.

Quindi effettivamente il fatto di disporre di modelli culturali è importante.
Apre delle possibilità nelle vite delle persone, delle ragazze in questo caso, e quindi un senso di responsabilità io me lo sentirei se avessi questo privilegio; per fortuna non ce l’ho quindi faccio il mio. La quota non incide neanche sulla realtà, in alcuni casi può essere importante come atto politico dimostrativo, da un certo punto di vista; porta l’attenzione su un tema, quindi ci può anche stare, però non la vedo come una soluzione al problema.

L'autrice dell'intervista con Maria Antonietta

L’autrice dell’intervista con Maria Antonietta

Queste le prime date:

03.05 San Benedetto del Tronto, I Luoghi della Scrittura (presentazione)

04.05 Rovigo, Rovigoracconta (presentazione)
11.05 Parma, Galleria San Ludovico – Inaugurazione Mostra Joan Cornellà
17.05 Firenze, In Flore – Dialoghi tra musica e letteratura (presentazione)
19.05 Urbino, Urbino e le Città del Libro
30.05 Soliera (MO), Festa del Racconto
01.06 Brescia, Sottovuoto Festival
02.06 Bologna, Biografilm
23.06 Correggio (RE), gARTen
28.06 Putignano (BA), Fatti di Storie
29.06 San Gimignano (SI), Nottilucente
11.07 Cagliari, Waves Festival
19.07 Vialfrè (TO), La Tempesta nel bosco @ Apolide Festival (presentazione)
20.07 Cortemaggiore (PC), Fillmore Festival
29.08 Roma, Giardino di Monk
27.09 Cori (LT), inKiostro – Chiesa di Sant’Oliva

 

Photo Credits @ Marco Iemmi