C’è la sua mano, e molto del suo cuore, dietro a Non essere cattivo, una delle pellicole italiane più folgoranti del 2015. Francesca Serafini, sceneggiatrice, scrittrice, docente e linguista romana (nonché romanista) e grandissima appassionata di tutto ciò che è narrazione (“datemi un divano e un buon libro o buon film e farete di me una persona felice”, ama dire di se stessa), ha infatti creato, insieme al collega Giordano Meacci, la sceneggiatura del film di Claudio Caligari; un film vorace e magnetico che trascina lo spettatore nella storia di due, come dice Serafini, “fratelli di strada e non di anagrafe”. Le abbiamo chiesto di raccontarci il suo mestiere di scrivere, legato a filo doppio all’amore viscerale per la parola scritta, per la sottile arte della punteggiatura e, naturalmente, per le storie che vale la pena raccontare.
Partiamo proprio da Non essere cattivo, un film di per sé intenso e in più immerso nella tristezza per la malattia del suo regista. Credi che questo fatto drammatico abbia unito tra loro i componenti dell’ormai celebre Banda Caligari? E com’è nata questa Banda?
In realtà la Banda Caligari è precedente alla scoperta della malattia di Claudio, ed è stato lui stesso a battezzarla così in una delle mail che ci scambiavamo negli anni in cui, finita la sceneggiatura, si cercava di mettere insieme i soldi per girare il film. L’idea che Caligari tornasse sul set aveva creato in noi un entusiasmo che presto si è trasformato in senso di appartenenza, per il fatto di essere parte di una comunità che crede ancora che in Italia si possa fare un film come Non essere cattivo. Poi, certo, la malattia di Claudio ha reso questo gruppo di artisti ancora più coeso. E la sua morte ci ha responsabilizzati, perché a quel punto toccava a noi accompagnare il film e fare in modo che lo vedessero in molti. Perché questo è stato l’ultimo desiderio di Claudio.
Il film ruota attorno al legame travagliato tra Vittorio e Cesare, che lottano per restare a galla tra attività illegali e uso di droghe. L’aver scritto questa storia di amicizia proprio insieme al tuo grande amico Giordano Meacci è stato un ostacolo o una risorsa?
Sicuramente una risorsa. In fondo, Cesare e Vittorio siamo un po’ anche noi due. Giordano, in un libro degli anni Novanta, mi definì sua sorella extra-anagrafica, che poi è quello che sono tra loro Cesare e Vittorio. Fratelli di strada e non di anagrafe. Non a caso, la battuta che chiude il film (“lui e tu’ padre erano come fratelli’) è stata la prima che abbiamo scritto.
Ho letto che il film che hai scritto insieme a Giordano Meacci su Fabrizio De André, finalmente si farà: puoi darci qualche piccola anticipazione?
Innanzi tutto a febbraio cominceranno le riprese per la regia di Luca Facchini, che ho conosciuto ai tempi della Squadra e che ha firmato A farewell to beat, un bellissimo documentario su Fernanda Pivano. Per tutti e tre, Fabrizio De André è stato un pilastro della formazione. Io e Giordano lo abbiamo anche incontrato e lui ci regalò un testo da pubblicare come postfazione in uno dei nostri primi libri. Fu allora che ci raccontò come rielaborava gli spunti che gli offriva la realtà e di come trasformava le persone che aveva incontrato nei personaggi dei suoi versi. Scrivendo la sua storia, abbiamo cercato di fare un po’ la stessa cosa: non ci ha mossi un intento documentaristico ma piuttosto la volontà di dedicare a Fabrizio la nostra canzone, sia pure sulla falsariga della sua storia reale che grazie a Dori Ghezzi abbiamo potuto approfondire e scandagliare. Abbiamo cercato, insomma, più il verosimile del vero, cercando un Fabrizio tutto nostro, vicino a quello realmente esistito ma rivisitato secondo la lezione che avevamo appreso proprio da lui.
C’è un personaggio della letteratura, del cinema o della tv in cui ti rispecchi? Se sì, quale e perché?
Ce n’è uno, tra i tanti, che ho amato alla follia ed è Scout, la protagonista del romanzo di Harper Lee Il buio oltre la siepe. Non so se posso dire di rispecchiarmi in lei, ma certo mi piacerebbe mantenere il suo sguardo nei confronti del mondo.
Facciamo un passo indietro: quando hai capito che volevi fare questo mestiere? C’è stato qualcuno che ti ha illuminato riguardo al tuo futuro professionale?
Ho sempre amato scrivere. Ho cominciato con centinaia di lettere e bigliettini ai miei cari; e poi pagine e pagine di diario negli anni dell’adolescenza. Da lì il salto nell’invenzione, dato che sono stata sempre una grande lettrice, è stato naturale. Quando ho cominciato a seguire le lezioni di Luca Serianni all’università, il mio obiettivo era quello di approfondire lo studio della lingua italiana, perché, come dice Carver, gli unici strumenti a disposizione di uno scrittore sono le parole e i segni interpuntivi e quindi, se volevo coltivare la mia passione, era necessario conoscerli bene. Certo in quegli anni non pensavo alla scrittura come a un mestiere, ma è stata di grande incoraggiamento l’attenzione che dedicava ai miei racconti Valeria Della Valle, oggi, insieme a Giuseppe Patota, maestra della divulgazione. Il fatto che passasse del tempo con me a rivedere quei primi tentativi letterari rendeva tutto meno velleitario.
Tra i numerosi libri che hai scritto c’è Questo è il punto – Istruzioni per l’uso della punteggiatura dove JD, il protagonista di Scrubs, come un moderno Virgilio trascina il lettore tra i segni di interpunzione, chiarendo, in maniera limpida e divertente, tutti i dubbi che possono nascere davanti a un foglio bianco. Come ti è venuta l’idea? Perché hai scelto proprio JD?
Al di là dalla mia passione per la serie ideata da Bill Lawrence (che, certo, suo malgrado ha fornito la materia prima per questo accostamento), mi sembrava che le incertezze di un giovane specializzando in medicina alle prese con la pratica del reparto fossero paragonabili a quelle di chi cerca di applicare nella scrittura la prescrizioni grammaticali apprese a scuola. In entrambi i casi bisogna cercare un giusto equilibrio tra la regola astratta (sia pure fondata sulle esperienze del passato) e il confronto con la realtà contingente che spesso ne mette in evidenza l’inadeguatezza.
Da grande tifosa della Roma hai pubblicato Di calcio non si parla, un saggio in cui il calcio è al centro della narrazione. Il ritratto che fai qui della tua famiglia, e in particolare di tuo padre, è commovente: che cosa rappresenta per te il calcio e perché hai deciso di scrivere un libro al riguardo?
Il presupposto qui è famigliare. Mio padre ha perso il suo quando aveva otto anni e gli unici ricordi che conserva di lui sono quelli di quando mio nonno lo portava allo stadio. Gli è venuto naturale, insomma, trasmettere anche a me e a mio fratello questa passione. Immaginando il libro ho pensato che la mia non fosse una storia isolata (nella maggior parte dei casi l’amore per il calcio nasce durante l’infanzia e dunque in famiglia) e allora ho voluto approfondire le ragioni di un fenomeno che ogni settimana catalizza l’attenzione di milioni di persone, senza distinzione di ceto sociale e di livello culturale. Tra le tante, mi sono soffermata sul fatto che il calcio è una forma di racconto che mantiene vivo l’elemento imprevedibilità, cosa che si può dire sempre meno delle narrazioni canoniche sempre più imbrigliate nelle regole dello storytelling.
Infine: cosa pensi che direbbero Vittorio e Cesare per chiudere questa intervista?
Probabilmente si appellerebbero all’indulgenza del lettore chiedendogli di non essere cattivo con me.
Credits: image courtesy Francesca Serafini e Kimera Film “Non essere cattivo”