C’ero cascata anch’io, confesso: m’ero in parte disaffezionata a Beyoncé, offesa dal fatto che il suo Beychella fosse stato così tanto più incredibile del concerto di San Siro a cui avevo assistito. E così m’ero accodata a quei commenti sciocchi e petulanti, del tipo che, ehi, ma quello di Coachella 2018 alla fine è stato “troppo”. Ma troppo cosa? “Massì, troppo perfetto, troppo sontuoso, troppo barocco, troppo tutto”. Già, capita spesso, ed è naturale, che gli esclusi (che per la legge dei numeri sono sempre in maggioranza rispetto ai presenti) da eventi di portata epocale, cerchino di ridimensionare quegli stessi eventi con argomentazioni pretestuose e irritate. Nulla di demoniaco, si capisce, si cerca solo di consolarsi e di non rosicare troppo, mentre si guardano di sottecchi frammenti di uno show che mette un punto e a capo nella storia della musica, perché tutti e tutte le pop star o aspiranti tali dovranno, stateci, ripartire da lì e cercare di fare meglio. E quel “lì” non è fatto solo di doti canore e performative, ma è molto, moltissimo di più, così tanto che raccontarlo per iscritto fa quasi girare la testa. Ma quanto grande fosse il senso artistico, culturale e pure antropologico di Beychella l’ho capito per bene soltanto guardando “Homecoming”, il documentario sullo show del millennio, scritto, diretto e interpretato sempre da lei, Queen Bee, di cui mi sono re-innamorata e che prometto di non fraintendere mai più. Furba, aveva detto qualcuno quando al Super Bowl aveva messo in campo uno spettacolo di chiaro riferimento black proud, con tanto di pugni chiusi al cielo e riferimenti alle Black Panthers.

Calcolatrice, avevano detto altri quando con “Lemonade” ci aveva raccontato parte dei fatti suoi, dalle radici dell’infanzia e adolescenza a Houston, Texas (forse non il luogo più serena dove crescere, quando sei una ragazza afro americana), ai casini del suo matrimonio. Gelida, anaffettiva, assetata di fama, aliena, s’era commentato quando aveva accettato di essere la prima donna nera headliner al Coachella, a nemmeno un anno dalla nascita dei suoi gemelli Rumi e Sir. Ecco, Miss Carter ha risposto a tutto questo, e ha pure aggiunto diverse altre cose a noi completamente sconosciute, e non per un’operazione di marketing (se avete visto il documentario su Lady Gaga sappiate che qui siamo su tutt’altro piano, tradotto: non ci sono ammiccamenti continui, frecciatine, gossip eccetera) ma, credo, per includere quei famosi esclusi di cui si diceva sopra, mettergli una mano sulla spalla e dirgli: “Ehi, non è colpa mia se non eri lì, ma vieni, ora ti ci riporto, anzi: ti porto pure nella parte zero glam della faccenda, e cioè in sala prove con me, quando avevo ancora addosso parecchi dei 100 kg a cui ero arrivata con la seconda, terribile gravidanza. Guarda, ti faccio pure vedere quando non riuscivo a fare le coreografie, ed ero stanca e pesante, e negli occhi mi si leggeva la paura-certezza di non farcela, ma non solo a Coachella, di non farcela mai più”. C’è una Beyoncé totalmente imperfetta e impreparata a qualche mese dal Festival, in Homecoming, che ci racconta di sacrifici e di come “la sala prove sia un bagno di umiltà. Per questo tanti la odiano: perché ti fa sembrare goffo, ti fa tornare allievo, ti ridimensiona”. Ma c’è, soprattutto, la Beyoncé che decide “di togliersi la coroncina di fiori del Coachella per mettere in piedi qualcosa che mi sopravviva, qualcosa che celebri la bellezza straordinaria della cultura nera, qualcosa che faccia sentire a posto con il proprio corpo, con le proprie curve tutte le donne del mondo”. Non sono parola tanto per: lo scouting fatto da Beyoncé per reclutare le oltre 200 persone presenti con lei sul palco è toccante, perché in un’America sotto la presidenza Trump, questa dedizione assoluta per i talenti ancora sconosciuti pescati dai college neri degli USA è un atto di coraggio, un atto di orgoglio, che durante un concerto grida forte alla propria gente “guardateci, noi non è che abbiamo speranza, noi siamo la speranza. . “Volevo un’orchestra di colore. Volevo gli stepper. Avevo bisogno dei cantanti. Volevo personaggi diversi. Non volevo che tutti noi facessimo la stessa cosa. Per esempio, le cose che questi ragazzi riescono a fare con i loro corpi e la musica che possono suonare, i rulli di tamburi, i tagli di capelli. Il loro stile è incredibile.”
Beyoncé, abbiamo capito da Homecoming, è molto più di una diva: è una a cui importa davvero. Anche di noi, che ci eravamo disaffezionati un po’, pensandola di un altro mondo, mentre lei questo mondo, lo abbraccia come poche e ci dice pure (sì, qui in pieno mood american dream, ma ci sta) che possiamo diventare quello che vogliamo. Questa è la sorellanza: bow down, bitches.