Molto spesso siamo portati a pensare alla musica come a una forma di intrattenimento. Oltre a questo, però, è anche una delle più potenti industrie culturali: dal contesto professionale entro cui costruire la propria carriera a quello di rappresentazione sociale e del mondo, la musica è ovunque. Ma le donne, nell’industria musicale, che peso hanno? E quale spazio viene loro concesso? Abbiamo fatto una chiacchierata con la psicologa e PhD in Comunicazione e nuove tecnologie Alessandra Micalizzi, che nel libro “Women in Creative Industries”- Il gender gap nell’industria musicale italiana – (Francoangeli), propone una lettura del gender gap nel settore analizzando le principali distorsioni, i dati, l’immaginario comune e i meccanismi che lo governano.
Come e quando è nata l’esigenza di raccontare il gender gap nell’industria musicale italiana?
Credo che il tema sia sul tavolo da diverso tempo, soprattutto da parte della comunità professionale di donne che ogni giorno si scontrano con il gender gap nel riconoscimento del proprio ruolo professionale, delle proprie competenze o banalmente della qualità del loro progetto artistico.
Il SAE Institute come circuito internazionale ha sempre avuto un’attenzione per questi temi, attraverso anche piccole azioni all’interno dell’organizzazione, ma si sono concretizzate in un progetto di ricerca solo nel 2020 quando, con il lockdown l’industria musicale – soprattutto live – ha subito un duro colpo e si è sollevato il problema degli effetti sui lavoratori e le lavoratrici del mondo dello spettacolo, evidenziando maggiori criticità per queste ultime.
Sanremo è terminato da poco, com’è andata quest’anno a livello di rappresentanza femminile sul palco dell’Ariston?
Se guardiamo solo ai numeri dovremmo dire “peggio” rispetto all’anno prima, dato che le cantanti in gara erano solo 7. Però l’osservazione del dato numerico risulta sterile se non si guarda alla complessità del fenomeno Sanremo, alla sua rilevanza culturale, e ad alcuni gesti mi verrebbe da dire qualitativi, di sostanza.
Abbiamo ascoltato ad esempio un monologo molto interessante sull’unicità di Drusilla Foer, un vero manifesto dedicato alla valorizzazione della diversità (anche se ha dichiarato di non amare questo termine). Io lo preferisco senza ombra di dubbio al concetto di differenza, che implica sempre uno scarto tra un “più” e un “meno”, cosa che nel caso della variabile di genere non dovrebbe avere senso.
Abbiamo visto il conduttore, Amadeus, alternare la consegna dei fiori alle artiste e agli artisti sul palco, in modo molto “paritario”.
Abbiamo assistito all’esibizione di un duo maschile, di cui è stato sottolineato l’affiatamento artistico, senza ricadere nel pretesto di sciocchi discorsi sulla vita privata degli artisti.
Credo che questi segni siano significativi, forse ancora non rappresentativi. Significativi di un cambiamento in corso che speriamo abbia ricadute operative più importanti e consolidate nell’esperienza quotidiana delle donne che operano nell’industria musicale, sul palco e dietro le quinte.
È notizia di questi giorni la petizione contro la “schwa”, promossa da Massimo Arcangeli e sostenuta da molti nomi del panorama accademico. Cosa ne pensa di questa vicenda?
La ringrazio per questa domanda perché tocca un tema importantissimo che viene spesso trascurato. La lingua è il riflesso di una cultura e nella riproduzione quotidiana si costruiscono e si rafforzano aspetti che hanno un riflesso sulle pratiche. Il tema è molto complesso per essere ridotto in poche battute, ma semplificando in modo estremo e facendo un esempio che non riguarda strettamente il genere possiamo dire che lo sdoganamento del termine computer è stato introdotto nella nostra lingua solo a seguito di una sua diffusione mainstream. Prima era semplicemente un calcolatore elettronico, alla portata di pochi e rinchiuso nei laboratori degli scienziati. Ecco, legittimare delle scelte linguistiche significa introdurre e talvolta confermare dei cambiamenti precisi nelle pratiche sociali e quindi anche nella coscienza collettiva, ovvero nel modo di rappresentare la conoscenza di un determinato fenomeno da parte di una comunità.
La schwa rappresenta esattamente questo: un carattere testuale – perché non lo immagino pronunciabile – che può introdurre e riflettere un modo di concepire la parità di genere.
E per quanto riguarda l’asterisco?
Non amo l’asterisco, che non considero un carattere ortografico e non immagino forme tronche e non pronunciabili nel parlato. Semmai, queste (le forme non pronunciabili nel parlato), possono essere sostituite dalla ripetizione del termine declinato al maschile e al femminile: care colleghe e cari colleghi, ad esempio.
Sono una ferma sostenitrice della declinazione al femminile dei mestieri e dei ruoli. Alcuni, ammetto, risultano cacofonici anche per me. Ma è solo una questione di abitudine (uditiva appunto). Mentre sul piano del significato e del peso sociale l’uso quotidiano avrebbe – e speriamo abbia – un impatto fortissimo. Diventerebbero possibilità: diventerebbe concepibile anche nel nostro immaginario che le donne possano occupare legittimamente e senza destare stupore posizioni che oggi sono occupate prevalentemente (e talvolta solamente) da uomini: tanto per fare un esempio, nella musica maestro ha un significato diverso da maestra. Lo abbiamo visto proprio a Sanremo: la Michelin è stata annunciata come “dirige l’orchestra il maestro Michelin” perché dirle maestra avrebbe significato dire un’altra cosa.
Nella musica rap e trap c’è spesso una misoginia di fondo che gli artisti tendono poi a minimizzare o smentire nel corso delle interviste. Ritiene che il continuo svilire la figura femminile possa influenzare in qualche modo gli ascoltatori, che sono in maggioranza bambini e adolescenti, e portarli a riprodurre, nella vita reale, gli stessi schemi?
Sì, è proprio così. Nel testo “Women in creative industries”, edito da Franco Angeli, abbiamo dedicato un capitolo a questo argomento. La musica non è solamente un mercato, un business, un contesto organizzativo. Non è nemmeno semplicemente un linguaggio. Ma è una delle forme dell’industria culturale oggi da cui dipendono modelli, rappresentazioni, pratiche e conoscenza.
Quei testi in primis sono traccia di un modo di vedere le donne ancora troppo presente nella nostra cultura: un modo che si riflette in comportamenti. In secondo luogo, sono anche lo strumento di diffusione di quelle stesse visioni, che legittimano un certo modo di concepire la donna e di auto percepirsi, purtroppo.
Nel libro, grazie al contributo di Silvia Olivieri e Maria Stella Tavella, abbiamo approfondito soprattutto le tracce e le conseguenze culturali del cosiddetto male gaze, sguardo maschile, e della costruzione della rappresentazione della cosiddetta pick-me girl.
Da frequentatrice di festival musicali noto sempre una disparità tra nomi maschili (in maggioranza) e femminili nelle line up. È controproducente ridurre questo delicato argomento a poche righe, ma per dare qualche input per una riflessione da dove possiamo partire?
La nostra ricerca ha coinvolto anche operatori del settore (uomini per l’appunto). Ed è stato fondamentale anche questo momento della ricerca perché ci ha permesso di capire qual è il percepito da parte dei principali attori dell’industria musicale: gli uomini.
Ebbene vi è una consapevolezza generalizzata del divario tra uomini e donne, che però viene collocata sempre distante da sé. L’immagine che emerge è di contesti privilegiati – quelli degli uomini che abbiamo intervistato – in cui pare non emerga alcuna discriminazione, salvo riconoscerla poi in ambiti di lavoro attigui, differenti, proiettati al di fuori della propria esperienza, ma sempre all’interno dell’industria. Un dato singolare che ci dice che c’è sicuramente molto ancora da fare.
Per tornare alla sua domanda, altrettanto chiaro è che sia gli uomini che le donne concepiscono le cosiddette “quote rosa”, nella musica come in altri settori, una forzatura. In fondo il rischio è che arrivino alla ribalta figure femminili ancora non del tutto mature sul piano artistico ad esempio. Tuttavia, viene ritenuto quasi unanimemente un passaggio obbligato per superare alcune barriere invisibili. L’optimum sarebbe garantire veramente “pari opportunità” di visibilità e di accesso, senza innescare meccanismi di favoritismo, che poi rischiano di essere formali e non concreti segni di un cambiamento. Però per arrivare a questo occorre forzare il sistema per legittimare e rendere culturalmente trasparente (cioè non più rilevante) il genere come variabile di accesso all’industria musicale.
Perez nel suo testo “invisibili” cita il caso delle orchestrali. Prima le musiciste erano pochissime o del tutto assenti nelle orchestre sinfoniche dei teatri. Guarda caso quando sono state introdotte le audizioni cieche i numeri sono aumentati esponenzialmente. Evidentemente un filtro culturale è presente negli occhi di chi seleziona, che in genere è un uomo in una posizione privilegiata di potere.