Lontana dall’intento di scrivere un masterpiece della letteratura italiana, ho voluto comunque riprendere dal buon vecchio Thackeray (e non da Marchetti, attenzione) la serialità delle narrazioni che si susseguono in Vanity Fair e su quella falsa riga costruire un altro tipo di storie.
Anzi, più che storie, le mie vogliono essere delle immagini che cercano di legare alla musica di un brano le sue possibili evocazioni di ambito stilistico, tale che, in questa fiera della vanità, a sfilare siano gli artisti vestiti delle loro note, dei colori invisibili che solo con un orecchio attento si possono percepire.
Sulla passerella della vanità, lasciamo che a succedersi sul catwalk (di artisti e musicisti), sia invece la nudità dell’indie.
Frah Quintale, Banzai (Lato Arancio)
Sdraio a riva, il sole che si rifrange cocente sulle lenti, una spremuta e tutto l’arancione di “Banzai”, il nuovo disco di Frah Quintale. Di picassiana memoria anche le ultime uscite di Frah Quintale sembrano attraversare varie fasi cromatiche oltre che musicali e stilistiche. Se nel 2020 abbiamo potuto ascoltare il lato blu di “Banzai”, è arrivato il momento di dare ascolto alla sua controparte calda, vivace e arancione come una giornata di inizio giugno. Cambiare cromia per Quintale non è stato un modo per cambiare rotta, anzi il lato arancio sembra essere la metafora di una sperimentazione musicale che cerca di annullare le differenze tra chiaro e scuro, caldo e freddo, pop e indie.
Apice, Fulmini di guerra
Onde che si rifrangono sulle battige arse, che somigliano a fulmini in tempesta, che somigliano a fulmini di guerra. Questo il titolo dell’ultimo singolo del cantautore spezzino Apice. A rendere il suo contenuto artistico, oltre che la scelta di istantanee naturalistiche dal gusto retrò, ci pensano sicuramente le parole, scelte e centellinate con una minuzia certosina. “Le mani sono rami troppo secchi per accarezzarti il cuore”, “come figli delle stelle ci cerchiamo solo al centro della notte”: la natura e l’uomo si fondono in un essere unico che non ha un volto ma ne ha centomila. Ogni cosa sembra essere al giusto posto nel singolo e se il rombare del cielo sembra promettere poggia, ormai abbiamo imparato che con Apice il bel tempo arriverà!
Giorgio Ciccarelli, Non credo in Dio
Più che vestire i panni di qualcuno, Ciccarelli compie esattamente il gesto inverso, quello della svestizione, del denudarsi da tutte quell’insieme di condizionamenti sociali e antropologici che hanno costruito il pensiero dell’uomo fino ad oggi. “Non credo in Dio” lancia infatti un messaggio fin troppo chiaro, nitido come le parole di chi ha raggiunto la consapevolezza che l’unico dio in cui possiamo credere si chiama “io”. Smontare l’intoccabile e imperitura ideologia, frutto del pensiero dei padri, è il meccanismo che Giorgio Ciccarelli intende innescare con la sua musica, tanto reale da non aver bisogno di cercare altro Dio all’infuori di sé.
Giovanni Carnazza, Leanò, Inutili parole
Se Superman è il mantello che nasconde Peter Parker, allora anche “Inutili parole” è il “costume” che cela dietro di sé la voce di Leanò e un vecchio brano di Giovanni Carnazza. Eppure, più che un invito al mascherarsi, quello di Carnazza è un grido a liberarsi da tutte le costruzioni mentali e reali che ogni giorno ci affollano la mente, costringendoci così ad indossare la maschera della falsità. “Inutili parole” è dunque la pelle sotto i cenci dell’esistenza, è il nuovo volto che i due artisti tracciano di un brano che andava troppo veloce per i tempi che corrono, e ora c’è bisogno di rallentare, di fermarsi e di sgomberare dalla propria mente tutte quelle inutili parole.
Adelasia, Giornata storta
Cantare delle giornate storte, scrivere una canzone su tutte quelle spiacevoli e nefaste vicende mantenendo dignità e classe è possibile. Se non ci credete allora dovete assolutamente ascoltare “Giornata storta” di Adelasia. L’artista di stanza a Roma ci ricorda che anche se le porte della metro ti si chiudono davanti dopo aver cercato di arrivare in orario alla fermata, oppure se qualcuno ci fa cadere a terra il Campari e Martini appena pagato, non importa, cantaci su e pensa che magari è soltanto una giornata storta: cambia prospettiva e il mondo che ti sembrava tutto nero può tingersi di…rosa.
I ragazzi del massacro, and Johnny left the gun
Finalmente delle chitarre! Ecco, dovevo dirlo, e continuo dicendo che in termini di stile, se c’è qualcosa che non passa mai di moda è proprio il rock. Hanno provato a inculcarci la trap, abbiamo provato a raccontarci la solita bugia che l’indie equivale alla musica inedita, ma alla fine credo che i veri nostalgici come me del buon vecchio indie rock dai sapori pungenti come il brit rock degli Artic Monkeys ai tempi d’oro riesca sempre soddisfare. Ecco che quindi entrano in gioco I ragazzi del massacro con “and Johnny left the gun” …ai posteri l’ardua sentenza!
Low Polygon, Demone
Luci a neon, sguardi che si scrutano tra le ombre della notte, profili fluidi giocano a nascondino con l’oscurità. Questa l’ambientazione di “Demone”, ultimo singolo dei Low Polygon. Il loro nome già anticipa l’ammirazione che questa band sembra avere verso il fascino della geometria e dei suoi poligoni. La magia che può avvenire entro questi finiti spazi sembra essere la chiave di lettura dei brani della band elettropop bergamasca: le loro sonorità potrebbero essere descritte come la sensazione che si prova stringendo tra le mani un cubo. E in voi che emozione suscita?