Lontana dall’intento di scrivere un masterpiece della letteratura italiana, ho voluto comunque riprendere dal buon vecchio Thackeray (e non da Marchetti, attenzione) la serialità delle narrazioni che si susseguono in Vanity Fair e su quella falsa riga costruire un altro tipo di storie.

Anzi, più che storie, le mie vogliono essere delle immagini che cercano di legare alla musica di un brano le sue possibili evocazioni di ambito stilistico, tale che, in questa fiera della vanità, a sfilare siano gli artisti vestiti delle loro note, dei colori invisibili che solo con un orecchio attento si possono percepire.

Sulla passerella della vanità, lasciamo che a succedersi sul catwalk (di artisti e musicisti), sia invece la nudità dell’indie.

Solo al sole – l’Albero

Un foulard affiorato, tinto di rosso e di viola, cinge la chioma di uomo che, dalla battistiana memoria, ci riporta indietro nel tempo, ai campi di grano, che fanno da sfondo alle parole di un corpo sdraiato Solo al sole, come quello dell’Albero. Pantaloni a zampa e corone di fiori sono il correlativo oggettivo di un mood anni Settanta, che riesce però a rendersi attuale grazie a una produzione musicale che (seppur superando i tre minuti canonici) riesce ad avere quel piglio sonoro tale da preservare Solo al sole dai segni del tempo.

Livido – Dave Calafato

Uno stile ibrido quello di Dave Calafato: se da una parte indossa le indifferibili felpe larghe da rapper, non ci sono però dall’altra parte né catene né anelli d’oro e diamanti. Come unico accessorio un orecchino lungo, da cui pende una testa di Moro diventa l’oggetto, non più così accessorio, per ricordare al mondo le sue origini. Ne va fiero Dave, sia della sua Sicilia sia della musica che gli ha fatto generare; così come non ha paura di baciare i lividi, promemoria vanescenti di una lotta metafisica contro tutto e contro tutti.

Happy house – Common Flaws

Pronti per bussare alle porte e recitare trick or treat, i Common Flaws hanno scelto il loro costume più pauroso e terrifico da indossare in Happy house. Volti coperti da guaine a scacchi ricordano l’onirica Red Room della disturbante Loggia nera lynchana. A questi si aggiungono altri volti, stavolta scheletrici, pallidi, cerei simili ad una “sposa cadavere” che spunta dagli abissi di un’atmosfera cupa ma dance. Di richiamo agli anni Ottanta, il glow di una cassa continua, che come delle luci a neon, fa da tappeto sonoro al brano.

Rosè – Tatumrush, Laila Al Habash

Una voce sussurrata quella di Laila Al Habash, che ci sfiora delicatamente la pelle e ci ricopre i pensieri come manto di seta. Morbida, traslucida, sensuale questa fibra, pregiata, così come le scelte stilistiche e musicali di Tatumrush. La tonalità predominante non può che essere il Rosè: un colore che non vuole essere determinato come un rosso, ma nemmeno candido come un bianco. A metà strada di questa gradazione cromatica, si pone anche il nostro brano, come la miscela perfetta tra nuance afrodisiache e mondane.

Jungla – Uhuru Republic, Giulietta Passera, Msafiri Zawose

Turbanti Ankara e abiti batik diventano i capi must con cui gli Uhuru Republic e Giulietta Passera si presenterebbero su un palcoscenico. Non li si potrebbe immaginare diversamente che vestiti di stampe Wax: tessuti africani dai colori brillanti, che rappresentano la creolizzazione fra due continenti lontani e diversi come l’Africa e l’Europa. Allo stesso modo, dunque, anche Giulietta e il collettivo fondono in Jungla musica folclorica africana all’ elettronica, generando una nuova forma di linguaggio misto e trascinante. Un po’ come, originariamente, si creava una comunicazione non verbale, fatta di immagini e tinture sgargianti sui tessuti Wax africani.