“spero che raccontare la mia esperienza aiuti altre persone a pensare alla propria vita, o alle persone che le circondano, in maniera diversa, e a considerare magari aspetti della propria vita che non avevano considerato prima.”

Jon Bryant nel 2015 è entrato a far parte di una setta, per poi uscirne qualche mese più tardi. Nonostante la sua permanenza in quella comunità sia stata breve, essa ha interamente ispirato, diventandone la cornice e il filo conduttore, la scrittura dell’ultimo album “Cult Classic”. Nell’intervista che abbiamo realizzato Jon ci ha parlato di questa sua esperienza e del suo quarto album studio, fuori per Nettwerk, il cui obiettivo iniziale era di terminarlo nel 2017 ma cambiando il suo processo di scrittura e sfidando in un certo senso se stesso – affidandosi dall’inizio al solo pianoforte, piuttosto che comporre partendo dalla sua chitarra – ha riscoperto le influenze della sua infanzia e adolescenza, e accogliendo i suoni caldi dei sintetizzatori nella sua architettura sonora, ha esplorato stili che da sempre l’hanno affascinato. Il risultato è un arrangiamento che evoca un radicale e intenso effetto cinematografico e il video del singolo “Did What I Did”, rispecchia perfettamente il tono che il cantautore ha voluto attribuire al nuovo album e risulta essere un naturale riflesso del tempo trascorso all’interno della setta.

Parlaci un po’ di te, di come è iniziato tutto con la musica.
Beh immagino di essere sempre stato piuttosto incline alla musica nella mia vita. Ma direi che è tutto iniziato al college: andavo a scuola d’Arte e seguivo un corso in Graphic Design e uno in Illustrazione, e disegnavo parecchio a mano libera. Un giorno, come compito da svolgere, ci diedero l’illustrazione della copertina di un disco. La band era a nostra scelta, poteva essere chiunque; e io scelsi me stesso, avevo scritto alcune canzoni ma in realtà non avevo mai registrato nulla. Nel momento in cui cominciai a disegnare la copertina dell’album immaginario, decisi di farne uno vero. Così, quando consegnai il compito, consegnai sia la copertina del disco sia le canzoni. E andò benone! All’insegnante piacque molto la mia musica e la mise su MySpace. Dopo un paio d’ore, un mio amico delle superiori si mise in contatto con me per dirmi che era un produttore e che stava studiando per diventare tecnico del suono, e che gli sarebbe piaciuto registrare i miei pezzi. Così ho preso un volo per Calgary, Alberta, attraversando la Nuova Scozia, e ho registrato quello che sarebbe poi diventato il mio album di debutto, “Two Coasts For Comfort”. E così è iniziato tutto.

Sei cresciuto in un ambiente musicale?
Sì, sono cresciuto in una casa molto musicale. Siamo quattro fratelli. Avevamo pianoforti e chitarre a casa e mio padre era un cantante gospel. Siamo cresciuti cantando in chiesa o suonando a lezione. Io ho preso lezioni di pianoforte per circa nove anni, e a scuola sono stato parte di una band Jazz. Sin da piccolo, insomma, ho avuto modo di esercitarmi molto.

Che cosa ti ha insegnato questa esperienza Gospel?
Credo che l’insegnamento più grande dell’esperienza Gospel sia vedere la musica come qualcosa che accomuni, che ci avvicini gli uni gli altri e che ci faccia stare bene, ed è incredibile quanto quel tipo di canzoni e quella sensazione, poi, te le porti dietro per tutta la vita. Io ci penso sempre. Penso sempre all’impatto della musica nella vita e a quanta felicità possa trasmettere alle persone.

E hai in mente un artista speciale, qualcuno che ti ha influenzato musicalmente?
Sicuramente mi hanno influenzato Simon & Garfunkel e Jeff Buckley.

Sei molto sincero, quando parli della tua esperienza in una setta. Come è finita a far parte del titolo dell’album?
Ho deciso di parlarne molto chiaramente a partire dal titolo dell’album, e ancora sto scrivendo canzoni che ne parlano. Credo comunque di aver fatto un’esperienza davvero unica, per certi versi. Molta gente non sa che cosa voglia dire fare parte di una setta e quanto possa rivelarsi una metafora di altri aspetti della nostra vita in cui ci capita di sentirci trascinati in qualcosa contro la nostra volontà, e non riuscire a uscirne. E molta della tossicità tipica delle sette è quella che viviamo giorno per giorno nelle nostre relazioni, per esempio. L’ho presa come una grossa opportunità per essere onesto con me stesso, per mettermi in discussione, perché non ti fa sentire a tuo agio parlare di certi argomenti e condividere qualcosa di tuo, e spero che raccontare la mia esperienza aiuti altre persone a pensare alla propria vita, o alle persone che le circondano, in maniera diversa, e a considerare magari aspetti della propria vita che non avevano considerato prima.

Quando hai capito che eri in una setta?
Subito, credo. Già nella prima settimana mi sono reso conto che, per quanto mi piacesse farne parte, mi stavano facendo il lavaggio del cervello. Pazzesco, era come io sapessi che le tecniche che usavano fossero effettivamente da lavaggio del cervello. Ti tengono sveglio per un giorno intero, fino all’alba del giorno dopo. Ti fanno dormire solo cinque ore a notte, e così per cinque giorni. In questi giorni ti riempiono di informazioni e quasi non ti fanno mangiare, puoi solo bere acqua. Ma non te ne fanno bere troppa e non ti fanno lasciare la stanza. Ed è pazzesco come tutto ciò non mi desse fastidio, anzi mi piaceva. (nel videoclip del singolo “Cultiveted” ci sono chiari riferimenti a questa esperienza, ndr.)

Quali sono gli altri “culti” presenti nel tuo disco?
Sicuramente si parla anche di relazioni tossiche, per esempio. Ne so qualcosa, ho vissuto un divorzio davvero terribile, un’esperienza che mi ha stravolto. Poi ho parlato anche di altri “culti”: quello del telefonino, quello dei social media che rapisce la gente, e ancora il culto di YouTube: come le persone vengano intrappolate nella cassa di risonanza dei social. E ancora gli sport nei quali i tifosi muoiono per le proprie squadre del cuore. Non si deve per forza essere devoti a un leader supremo: qualsiasi cosa può diventare un culto, un’ossessione, un modo per provare la propria fedeltà incondizionata a una causa, a una persona, a una squadra, a un’ideologia.

Ma dovresti anche essere d’accordo sul fatto che è importante credere in qualcosa che possa guidarti?
Sì, direi di sì. Avere un punto di vista importante nella vita, qualcosa che ci aiuti a vivere meglio e a rendere migliore il mondo in cui viviamo. Il problema nasce quando non pensi più con la tua testa, questo mi allarma. Quando sento il telegiornale, per esempio, mi rendo conto che quando si parla di politica in Canada, USA, Germania, alla fine si riduce tutto a dover prendere le parti di qualcuno. Ci sono delle vere e proprie suddivisioni in tribù, alle quali bisogna restare fedeli. Non voglio essere così ottuso da dire che loro là fuori hanno tutti torto e ho ragione io. Dico solo che la suddivisione in fazioni non può portare a niente di buono.

 

Raccontaci come sono stati registrati i brani di Cult Classic.
Allora, abbiamo usato una delle primissime Prophet polifoniche, per molte parti strumentali. Io ho scritto tutti i pezzi con il Rhodes e il pianoforte, una novità per me, che ho sempre composto con la chitarra acustica. Poi durante le registrazioni facevamo gli opportuni cambi di tonalità. Ci siamo presi del tempo per registrare, sei settimane. Abbiamo usato chitarre elettriche Jazzmaster e chitarre acustiche Martin. E abbiamo usato moltissimo il pedale VCR di Ryan Adams, e spero che lo venga a sapere perché lo adoro quel pedale. Me l’ha prestato un mio amico attore. A pensare a quel periodo mi vengono in mente un sacco di aneddoti! Ci siamo molto divertiti e volevamo che il sound fosse caldo e facesse venire in mente gli anni Settanta, e ci siamo riusciti.

Pensi che scrivere col pianoforte abbia cambiato il tuo suono?
Sì, penso di sì. Cambia molto perché con la chitarra mi sento un po’… non proprio limitato, ma comunque meno creativo. È una questione di memoria muscolare. Quando comincio a suonare la chitarra, istintivamente il primo accordo che faccio è un Do maggiore. Ogni musicista ha il suo. Invece col pianoforte non ho un accordo che mi viene naturale suonare, e quindi mi sbizzarrisco di più paradossalmente, improvviso, ho un approccio… più Jazz!

Un’ultima domanda prima di salutarci. Ti considereresti un tipico introverso cantante/cantautore?
Sono molto estroverso. Parlo con tutti senza nessun problema. Saluto la gente che incontro per strada e la stuzzico quasi, mi diverte. Porto la mia arte sempre con me. Non la tengo per me e uso come fonte di ispirazione qualsiasi interazione con la gente, che siano estranei per strada o durante un incontro di famiglia. Ogni esperienza che faccio è uno spunto per pensare alla prossima canzone, al prossimo poema, alla prossima opera d’arte che realizzerò.

 

Jon Bryant sarà , per il suo tour europeo, in concerto a Milano alla Santeria Social Club, il 16 Novembre 2019.

(Traduzione testi IT/ENG a cura di Teresa M. Brancia)