La cancer season alle porte, qualche goccia di pioggia che ogni tanto scende sul parterre dell’Ippodromo, ragazzi e ragazze con occhiali rossi a forma di cuore e corone floreali in testa, la scritta “ultraviolence” tatuata a caratteri cubitali sul petto di un fan e le t-shirt con la copertina di “Norman fucking Rockwell”.
Lana Del Rey, anche quest’anno, torna da noi quando si respira già profumo di estate. E apre con una canzone che rimarca il suo amore per la romantica summertime: “Without you”. Sono passati più di 10 anni dall’uscita di “Born To Die” nelle sue varie versioni, ancora più tempo è passato da quando si faceva chiamare Lizzy Grant e io ascoltavo le sue canzoni su dischi masterizzati perché quelli originali erano introvabili. Ma lei è sempre la stessa. La solita malinconia è fissa nei suoi occhi, le acconciature non sono cambiate da quel mio primo concerto a Torino nel 2013, tantomeno i vestiti che indossa (e che cambia ripetutamente durante l’ora e mezza – scarsa – live).
Dal pubblico, ogni tanto, partono i soliti italianissimi cori “Sei bellissima”. La ragazza di fianco a me commenta con un onesto “Dai, sempre con queste pagliacciate”. In effetti, però, Lana è una diva che tiene il palco senza doversi particolarmente impegnare, se non con voce e sorrisi.
I grandi classici come “Video Games” e “Summertime Sadness” sono sempre quelli che fanno cantare di più i fan. “A&W” fa ballare, prima di “Ride” c’è un monologo cui fanno da sfondo clip tratte dai suoi video, spesso aperti da vere e proprie intro che Lana ha iniziato a farci amare con pezzi come “National Anthem” e che sono identitari della sua poetica. Sul maxischermo viene inquadrata una ragazza che piange emozionata, feel you sis.
L’acustica, ahimè, lascia molto a desiderare. Ed è un peccato, perché gli I-DAYS sono un appuntamento importante per gli appassionati di musica e meriterebbero (dati gli elevati costi dei biglietti e le evidenti problematiche gestionali e organizzative) una cura maggiore. Invece sembra che la cura sia stata messa solo nella selezione della pubblicità da sparare tra un’esibizione e l’altra. Non oso immaginare cosa (non) abbiano sentito le persone fuori dal PIT. Anche perché la voce di Lana è, per buona parte del concerto, sovrastata da quella dei fan, e si riesce ad ascoltarla solo durante le canzoni meno conosciute.
“Blue Jeans” e “Salvatore” le due grandi assenti dalla setlist. La seconda viene invocata a gran voce dal pubblico in vari momenti. “Calling out my name/In the summer rain/Ciao amore/Salvatore can wait/Now it’s time to eat/Soft ice cream”; se non la canta in Italia dove mai dovrebbe cantarla? Su “Hope is a dangerous thing for a woman like me to have – but I have it”, invece, Lana diventa un ologramma e su “Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd” flexa tutta la potenza del coro che la accompagna.
La nostra Lolita preferita ci saluta con “Young and beautiful”, outro versione jazz, quella purtroppo mai registrata del “Grande Gatsby”. E infatti ballerine e coriste, che per tutto il concerto hanno intrattenuto con ipnotiche coreografie e intrecci di voci, iniziano a stappare bottiglie di champagne. Per un momento mi sento a un party anni ’20 insieme a Jay e Daisy.
Sono Byron Thomas e il suo piano ad accompagnarci dolcemente verso la chiusura, mentre tutti siamo ancora immersi nelle atmosfere oniriche e nostalgiche.
“Baby what’s your sign? My moon’s in Leo my Cancer is sun”
Photo courtesy @ I-days festival