365 albe all’anno (366 se anno bisestile) in Trentino, la maggior parte delle quali splendide albe rosee che con colori tenui accarezzano le cime delle montagne e con il loro tocco delicato, aiutate dal vento, increspano la superficie quieta delle acque dei laghi tracciando racconti e storie perdute. Tra queste, però, ci sono certe albe autunnali che presagiscono l’inverno. Albe perdute nella nebbia, che sale dai corsi d’acqua così fitta e grigia che occlude lo sguardo al paesaggio, a quello che ci circonda. Albe che rendono dubbia l’esistenza stessa del mondo e di sé stessi in relazione ad un mondo che non si riconosce più.
Never Was But Grey , questo il titolo del disco, tratto da una frase del racconto di Samuel Beckett “lessness”, è il frutto di queste albe e racconta questa sensazione di assenza di certezze, di equilibri perduti, di ricerca di sé. Un limbo emotivo, un limbo incerto (come scriveva Calvino) dal quale districarsi, liberarsi come il sole si libera della nebbia. Suoni diretti e un po’ acidi al limite della percezione della distorsione. Come certi mal di testa da hangover.
Cosi Luigi Segnana (terminato il suo percorso come bassista e produttore della band Casa del Mirto) ci introduce [lessness] il suo progetto solista da compositore/produttore e ci presenta l’atteso debut album.
“Il suono ricercato è quello che mi gira in testa all’alba e nelle mattine difficili e le sonorità di questo nuovo percorso nascono dall’oscurità e dalla notte e sono incentrate sul suono del basso”, strumento dal quale nascono i riff su cui poggiano le 10 canzoni, ed il resto dell’arrangiamento con synth e loop di batteria in evidenza che [Lessness] continua a raccontarci in prima persona track by track.
WAIT
È la canzone che introduce al disco, è stata scritta a fine settembre sotto un albero di tiglio ingiallito e che cominciava a perdere le foglie. È un racconto di separazione, come in autunno le foglie si separano dall’albero. Una canzone che vuole ricreare il momento in cui si prende una decisione che avrà conseguenze sul corso di una o più vite, il momento in cui si si prova quella stilla di malinconia quando ci si rende conto che una porta si è chiusa alle spalle e non si riaprirà, ma al tempo stesso ci consentirà di andare avanti e crescere. In questa canzone il basso è suonato ad accordi come una chitarra, con un suono che accompagna in sottofondo tutto il pezzo, completandosi con un crescendo di batteria e pianoforte.
AWAY
Questa canzone è dedicata ad un grande momento illuminista nella storia del genere umano. Un momento in cui siamo quasi riusciti ad uscire dal buio millenario e entrare nella luce. Il momento in cui siamo quasi riusciti a liberarci delle visioni classiste della nostra società, della monarchia e del clero. Parlo della rivoluzione francese.
La canzone segue un ritmo più sostenuto rispetto al pezzo che apre il disco per aprirsi poi in un ritornello corale in cui uso anche una viola. Al di là delle dissertazioni storico/filosofiche la canzone tratta di espiazione e purificazione. Un atto, anche violento, che ci permetta di bruciare i ponti con il passato ed il nostro vecchio io e di rifarci una verginità emotiva. Un po’ come avrebbero dovuto sentirsi i francesi in piazza al momento del taglio della testa di qualche nobile. Nel corso della canzone, ovviamente, il protagonista si rende conto dell’inutilità di un atto violento o della ricerca all’esterno della propria pace interiore, che la propria realizzazione dipende da sé stessi e non da altri e che il momento che tanto attendeva per far svoltare la propria vita in realtà non ha significato. Tutto parte dalla consapevolezza di sé.
WOULD YOU…?
Con Would You…? si resta su ritmi sostenuti e ballabili. La canzone sente l’influenza di canzoni come Blue Monday dei New Order o Girl and Boys dei Blur. Basso persistente e giro di synth quasi arrogante. Il pezzo è nato per caso, giochicchiando col basso è partito il ritornello, e da lì il resto. La canzone tratta della duplicità insita nell’essere umano. La capacità di essere bene e male contemporaneamente. Yin e Yang. Tratta anche della maledizione dei sensi di colpa, fare cose che ci piacciono pur sapendo che sarebbe meglio non farle. Tentazione e cedimento alle piccole debolezze che ognuno di noi porta dentro. Me la sono sempre immaginata, figurativamente, come una scena di quei cartoni animati vecchiotti, tipo Tom & Jerry quando il gatto (Tom o Jerry? Non ricordo mai) è posto di fronte ad un bivio, all’opportunità di fare del bene o del male e sulla spalla compare la sua miniversione angelica e poi la sua miniversione demoniaca ed iniziano a litigare. Il consiglio è di ascoltarla in cuffia con il volume al massimo.
V.I
ritmi si abbassano e si vira su sonorità più scure, con il piano e synth in evidenza. Una canzone un po’ più ambientale rispetto alle altre. V. parla di assenze, di mancanze, su quanto si è totalmente soli in certi momenti della propria vita e di quanto sia difficile maneggiare il materiale emotivo che ci compone, succubo di alti e bassi vertiginosi, da far girare la testa. Da farti desiderare di isolarti ancora di più, di esiliarti in un mondo personale, solo per non sentire più dolore.
HOW SHOULD WE LOVE THIS FEVER?
How Should We Love This Fever nasce da un arpeggio di basso su un campionamento di congas bestializzate da riverbero e delay. La canzone tratta di quanto sia facile perdersi pur conoscendo la strada, pensi di aver preso le svolte giuste e alla fine ti trovi comunque in un vicolo cieco senza avere idea di cosa sia successo. È la canzone che più risente dell’influenza di James Blake. Comunque sia, questa la spiega Bukowski, col suo cauto ottimismo.
“Nati così in mezzo a tutto questo/tra facce di gesso che ghignano/e la signora morte che se la ride/mentre gli ascensori si rompono/mentre gli orizzonti politici si dissolvono/mentre il ragazzo della spesa del supermercato ha una laurea/mentre i pesci sporchi di petrolio sputano la loro preda oleosa/e il sole è mascherato/siamo nati così/in mezzo a tutto questo/[…]/ci muoviamo e viviamo in tutto ciò/a causa di tutto questo moriamo/castrati/corrotti/diseredati/per tutto questo/ingannati da questo/usati da questo/[…]/resi pazzi e malati da questo […].
SEVEN SEALS
Seven seals è una canzone che idealmente si accoppia con Away, come tematiche e sonorità. Sono state scritte praticamente assieme, ad un giorno di distanza, però in track list le ho separate sennò bullizzano le altre.
La canzone rimette il basso in primo piano, con l’aggiunta di un basso synth che accompagna l’assolo di basso del ritornello. La canzone parla di perdita della coscienza di sé, di smarrimento di punti di riferimento e quanto la strada che porta al fallimento sia molto simile alla strada che porta alla grandezza, differiscono in piccoli dettagli difficili da cogliere e che a volte non dipendono da noi. Piccoli ostacoli che qualche entità ci pone sul percorso verso ‘casa’. Una piccola odissea personale. Figurativamente me la immagino con un me stesso vecchio (tra non molti anni eh…) che non riconoscendo più sé stesso allo specchio decide di seppellirsi vivo nel giardino di casa, in segno di spregio verso il tutto esistente là fuori. Certo le citazioni di Lovecraft e Poe, si sprecano. E pure Hitchcock.
24/7
24/7 è il pezzo più lungo del disco ed il più violento, per certi versi. Ritmica ossessiva e basso tirato a lucido per l’occasione, con l’aggiunta di un loop di piano al limite del fastidioso per quanto ripetitivo. L’idea è quella di trasportare in musica un’ossessione un pensiero fisso, un chiodo arrugginito che graffia il cervello.
La canzone tratta di stalking e di quanto questo possa danneggiare la psiche della persona perseguitata fino a farne sentire quasi la mancanza, quando lo stalking finisce, lasciandoti con un senso di vuoto assoluto.
DECONSTRUCTION
Deconstruction è la storia di una persona che decide di abbandonare la lotta di deporre le armi, di lasciarsi tutto alle spalle, mettersi a letto e non muoversi più fino a non avere abbastanza energie neppure per alzare le palpebre. Lasciare che il mondo giri e giri e giri senza di lui, chiudere tutto fuori. Fino alla fine. Il beat è un loop continuo, sostenuto da un giro di basso ossessivo (di nuovo), la voce è stata registrata nella cabina della doccia…per dare un tocco di disagio al riverbero.
2:21
È la canzone più positiva dell’album. È un’ode sbronza all’amore universale. 2:21 è l’ora in cui la canzone è stata scritta e registrata (nelle parti principali). Il basso ed il piano si interscambiano nella melodia mentre la melodia vocale ripete un mantra continuo “Only you can pluck me out, burning”. Il testo trae ispirazione dall’opera di T.S. Eliot “La terra desolata” ed in particolare dal capitolo “Il sermone del fuoco”.
OH, ME.
“Oh, me.” riprende le sonorità della canzone di apertura del disco. Anche in questo caso il basso è suonato ad accordi, come fosse una chitarra. La canzone è scarna con un arrangiamento essenziale e minimale. Qualche nota di piano che accompagna la melodia, basso e batteria. Una canzone spogliata del superfluo, quasi cantautoriale più che elettronica, un sussurro.