Partire per un viaggio, partire senza niente viaggiando di notte orientandosi con la luce delle stelle.
Ogni bagaglio è superfluo ogni rotta è inutile conta solo l’uomo e la sua ricerca.
Cogliere i segni della natura farne tesoro per innalzarsi a nuova conoscenza.
L’ambizione di confrontarsi con il mondo metafisico è la chiave di lettura per guardare nell’abisso sapendo che anch’esso guarda dentro te.
La scelta è certamente radicale e la sfida è alta. Gli strumenti narrativi sono fatti di silenzio, piano e voce supportati da una stratificazione elettronica asciutta e lontana da accenti pop. In alcuni passaggi lo stile si avvicina al Giovanni Lindo Ferretti dei lavori più intimi.
Istruzioni per l’uso: ascoltare più volte al buio, ogni volta il viaggio si espande verso nuovi territori.
Ciao Pieralberto, siamo rimasti molto incuriositi dal tuo ultimo lavoro che si discosta dai cliché della musica d’autore tradizionale. Un’ opera controcorrente che riduce all’osso la scenografia puntando su voce e piano, una scrittura ruvida e poetica in un blend elettronico denso e scuro.
Parliamo di “Atlas” dal titolo dell’album, uscito il 24 febbraio scorso, un rimando alla mitologia e al mondo immaginifico ma anche al mondo reale fatto di confini, culture, religioni. Quale appartiene di più al tuo Atlas?
Sono la stessa cosa. Il movimento presuppone una coordinata, uno spazio-tempo, una mappa. Ciò che avviene sulla terra è uno specchio di ciò che avviene in noi, e viceversa. Abbiamo perso la mappa per decifrare il presente e viaggiare sprovvisti di una mappa equivale ad andare alla deriva. Le coordinate sono sparse ovunque, sono tra le pieghe dei libri, tra i suoni dei riti, nella cultura millenaria di cui facciamo parte. Eppure ci sforziamo di non vedere.
Ascoltando con attenzione il tuo lavoro arriva una compostezza e un minimalismo che prende le distanze da stili cantautoriali classici. Com’è stata il tuo percorso creativo? Com’è cambiato dai SantoBarbaro tua precedente esperienza?
La sottrazione vince sempre. Più le risposte sono concise più si avvicinano alla verità. In un presente in cui si abusa della parola e del rumore, l’unica via è ritornare al silenzio, per dare peso alla parola. Questa per me non è una novità. È quello che ho sempre cercato di fare. La differenza in questo disco è che anche da un punto di vista sonoro ho cercato di arrivare all’essenza di ciò che volevo comunicare, delimitando l’uso di strumenti, suoni, possibilità. Così rimane solo il cuore centrale, il centro immobile che se ne frega del vorticare che lo circonda.
Hai un linguaggio forte e poetico con richiami alla materia naturale spesso metafisico. Come mai questa distanza dal mondo reale?
Io non la vedo come una distanza. Al contrario, proprio nel momento in cui rifiutiamo di guardare in alto perdiamo il contatto con la terra, con la materialità, con la carne. Siamo nati per stare nel mezzo tra la terra e il cielo. O si accettano entrambe le dimensioni, o si rifiuta di vivere.
I temi “oscuri” come eternità, polvere, galassie, mutamenti sono presenti anche nel tuo romanzo “Finchè c’è vita” (treditre editori). Che differenze hai trovato nello scrivere per le tue canzoni?
Mi rendo sempre più conto di stare raccontando un’unica storia personale. Spesso ritrovo frasi del libro nelle canzoni successive, ma anche in quelle precedenti. È come se stessi cercando di arrivare al succo delle cose, come se stessi concentrando un pensiero in un’unica parola. Quando arriverò a quel punto, potrò finalmente smettere di scrivere.
La parte elettronica che hai sviluppato richiama sonorità molto british, non ti è venuta la tentazione di scrivere i testi in inglese?
Sarebbe una scorciatoia. L’inglese ti dà molta più libertà espressiva, proprio da un punto di vista di accenti, sillabe, incastri ritmici. L’italiano è strutturato, le sillabe non si modificano in accordo alla musica. E allora devi cominciare a lavorarci, a limarle, a modificarle fino a trovare l’incastro perfetto. Ma l’italiano è anche la lingua con cui sono nato, al di là del fatto che lavorativamente uso altre lingue. E una lingua è lo specchio di una cultura, e nasconde infiniti livelli di comprensione e suggestione al suo interno. A me interessa evocare ciò che si nasconde sotto alla nostra cultura, per questo motivo non ho scelta.
Una peculiarità stilistica unica, a mio avviso, è l’uso delle pause che aggiunge tensione e climax alle tue immagini poetiche. Una che mi è rimasta impressa è in Frontiera: ” verrà un’aria…e sarà di lava” un forte ossimoro. Vuoi fare un commento a questo proposito?
Curiosamente hai citato l’unico testo che non è propriamente mio all’interno del disco (è di Luca Barachetti). La potenza dell’evocazione risiede proprio nel ritmo e nel suono della parola stessa, e nel suo coordinarsi con le precedenti e le successive. Se giochi con il ritmo e con le pause aumenti il senso di attesa, e quindi anche l’aspettativa dell’ascoltatore. Poi devi essere bravo a spiazzarlo, a dirottarlo e poi riportarlo sulla via che hai deciso di tracciare. È un lavoro estenuante, che non sempre riesce, ma si basa sull’evocazione rituale del canto, al di là del significato delle singole parole.
Frontiera, oltre che Atlantide, sono i due video che accompagnano i tuoi brani quanto ti rappresentano?
Moltissimo. In tutti i video che faccio lascio molta libertà espressiva ai registi. Ciò che mi preme è dettare le linee guida, le direttrici simboliche che vivono sotto al testo. Una volta chiarito questo punto, i registi con cui collaboro possono seguire il proprio flusso. Nello specifico, mi sembrava giusto cominciare con il mondo subacqueo di Atlantide e continuare con l’ascensione di Frontiera, perché questo è il senso del disco in quante tale: un viaggio che nasce nelle profondità del mare e si eleva, gradualmente, verso lo spazio dal quale arriveranno i futuri.
Da poco hai iniziato le live performance con cui ti proponi ad un pubblico eterogeneo, come ti trovi in questa veste? Quali sono le emozioni che raccogli?
Anche se ATLAS è un disco nato in casa, e poi in studio, la dimensione live è il palcoscenico più adatto nel quale l’ho immaginato. È un fluire continuo di comunicazione, un ponte che si struttura sul palco e tra il palco e chi ascolta. È sicuramente un live atipico, anche perché sono una persona di poche parole, soprattutto quando suono dal vivo. Dovrebbe rappresentare un’esperienza collettiva, una performance che unisce tutti i sapori del disco e li mette a nudo, senza particolari artifici. In questo senso, la prima data è stata molto difficile perché non è semplice centrarsi e immobilizzarsi su un palco dopo due anni di lavoro in solitudine. Ma già dal secondo concerto abbiamo trovato la quadratura del cerchio, perché in fondo la musica è forma, è geometria, è numero.
Atlas Credits
Grafica: Johanna Invrea
Immagine di copertina: Erich Turroni
Foto promozionali: Enrico Mambelli