Mi chiamo Giulia, ho 35 anni e negli undici anni che sono andata a scuola (elementari, medie, superiori) ho preso una sola nota sul registro: in quarta elementare, per aver picchiato il mio compagno di classe Domenico che aveva ucciso un lombrico.
Sono sempre stata una bambina giustiziera e ho sempre capito che gli animali erano miei amici e che in qualche modo dovevo difenderli.
Lo so, avrò sicuramente sbagliato a picchiare Domenico, che mi stava pure simpatico quando, nel suo grembiulino blu un po’ stropicciato, si mangiava anche le caccole; ma sentivo profondamente che stavo facendo la cosa giusta dandogli quello schiaffo, perché, senza motivo, stava facendo del male ad un povero lombrichetto che gironzolava nel giardino della scuola senza dare fastidio a nessuno.
Poi, forse perché siamo stati educati così, che gli animali vanno mangiati, io mangiavo tutto.
I miei piatti preferiti erano i tagliolini al nero di seppia, la testa di agnello al forno con le patate, gli occhi e le code dei pesci, il piccione che mi preparava zia Lina, le rane fritte di Pino, il ristorante cinese dove andavo con mio padre e il filetto al Merlot del mitico Gustavo la trattoria dove tutte le domeniche pranzavo con la mia piccola famiglia composta da nonno Antonio, nonna Gina, mamma Maddalena, papà Roberto, zio Franco, zia Nilde e i miei cugini Ale e Eddie.
Ho sempre pensato nel profondo della mia anima che se mangiavo un maiale o una mucca, perché non potevo mangiare anche un cane o un gatto? E così sperimentavo tutte le cose più particolari e “strane” che trovavo in giro.
Non ero ancora consapevole, non sapevo il significato di vegetarianismo figuriamoci quello del veganismo..che ne potevo sapere quando andavo in campagna a Ripi, in provincia di Frosinone, a trovare zio Stefano e bevevo il latte dalla mammella della mucca o assaporavo l’uovo direttamente raccolto sotto il fieno, ancora caldo e un po’ puzzolente?
Aiutavo mio padre a pulire l’agnello a Pasqua e quanto mi piaceva guardare e analizzare le interiora, tenere le zampe mentre mio padre tagliava la coscia, tant’è che pensavo addirittura di voler fare la macellaia da grande.
Ma, nonostante ciò, mi piaceva stare in mezzo agli animali, mi sentivo al sicuro, protetta e giocavo con loro, ci parlavo e li coccolavo e sentivo meno pesante la solitudine di essere figlia unica.
Ho sempre avuto dei cani, sono nata quando a casa c’era ancora Stella, il collie di mamma e papà e poi si sono susseguiti cagnolini di ogni specie e razza, tutti rigorosamente trovati o regalati. Poi c’era qualche gatto che ogni tanto si rifugiava nel nostro giardino, partoriva e veniva accolto ben volentieri con i suoi cuccioletti.
Per un periodo ho avuto anche un’ochetta, poi delle tartarughe e anche un criceto che avevo trovato vicino al secchio dell’immondizia chiuso ancora nella sua piccola gabbia, poi ancora pappagalli, un furetto.
Una piccola arca di Noè praticamente!
Prendevo tutti gli insetti in mano, dovevo toccare tutto, sapere com’erano fatti e sentire la loro energia, avevo solo un grande terrore, che ho tutt’ora: le farfalle. Niente, con le farfalle non c’ho mai fatto pace e qui si potrebbe stilare un trattato psicologico sul perché, ma non è questa la sede giusta.
Insomma, questo amore per gli animali era tanto forte e cresceva sempre di più fino a quando un giorno, avrò avuto 12/13 anni, andai a Fiesta, un festival di musica che si teneva a Roma in zona Capannelle, dove per la prima volta vidi un video che mi cambiò. Ancora me lo ricordo, c’era questo banchetto di un gruppo animalista che proiettava con una videocassetta le immagini di una macellazione di mucche. Rimasi sconvolta e pensai subito a quelle nella stalla di zio Stefano e ancora alla carne alla brace che mangiavo da lui . Collegai tutto, fu un’illuminazione per me, iniziai a piangere così forte che una delle ragazze mi si avvicinò e mi consolò. Mi lasciò un volantino e da lì iniziai a farmi arrivare la loro rivista a casa, a scadenza mensile, per informarmi su cosa succedeva nel mondo.
Continuavo a mangiare tutto ma sentivo che stavo prendendo coscienza e che se amavo gli animali non potevo mangiarli. Anche se mille dubbi mi assalivano e miei genitori un po’ scettici e poco informati, mi obbligavano a mangiare, percepivo il mio cambiamento profondo.
Passarono diversi anni e verso i 15/16, in modo molto più consapevole, avendo iniziato anche ad informarmi su internet (che per caricarsi all’epoca ci voleva un pomeriggio di rombi di router) decisi di iniziare il mio percorso e divenni vegetariana.
Non fu difficile, piano piano toglievo un animale e mangiare verdura, frutta e legumi mi dava tanta soddisfazione.
Finito il liceo, decisi di iscrivermi a veterinaria a Perugia, durai un solo anno perché capii in fretta che non era la mia strada; avrei dovuto fare il tirocinio in degli allevamenti che ormai consideravo dei piccoli lager; dovevo fare anatomia “pratica”, sezionando cadaveri di animali che probabilmente non erano morti per vecchiaia o per cause naturali. Avevo la limpida sensazione che non sarei mai riuscita a fare questo lavoro, non stavo bene in quei panni.
Tornai a Roma e mi laureai in Storia dell’arte, preparai e discussi una tesi bellissima che ancora conservo e ogni tanto sfoglio ancora: “L’animale nell’arte del XXI secolo”. Analizzavo come gli animali veri (e vivi) vengono utilizzati nell’arte contemporanea e valutavo se nell’arte stessa esistesse un comportamento etico nei loro confronti.
Parlai di artisti che ho sempre adorato come Damien Hirst, Maurizio Cattelan, Marco Evaristti che, per alcune delle loro opere concettuali, avevano usato rispettivamente uno squalo tigre catturato da un pescatore australiano su commissione di Hirst stesso; fatto imbalsamare cavalli, asini, galline, scoiattoli o, nell’ultimo caso, lasciato morire dei pesci in dei frullatori messi alla mercè del pubblico che poteva scegliere se schiacciare o meno il pulsante di accensione.
Capii che la mia scelta di cuore aveva un impatto anche sulla mia ammirazione.
L’etica in quei casi non c’era, punto!
Il veganesimo è la mia vita!
Oggi ho quasi 36 anni, sono vegana in tutto, dal cibo, al sapone che uso per lavarmi, ai trucchi, allo smalto, fino ai prodotti per pulire la casa e persino le sigarette che fumo!
Sono fiera di esserlo perché non ho mai vissuto questa scelta come una rinuncia ma come una grande forma di rispetto e una fortuna, infatti non è stato difficile perché la motivazione che mi spinge è talmente forte che per me è un piacere.
Non sono però una rompiscatole con chi mi sta affianco, perché vivo in una società che non la pensa come me e perciò ho creato il mio mondo dove poter mangiare, farmi i capelli, prendermi cura del mio corpo, indossare capi alla moda e sentirmi dire sempre #SEITANtoFICA.
Questo hashtag l’ho coniato quando ho aperto il mio profilo Instagram perché volevo creare un gioco di parole tra il seitan (cibo sostitutivo della carne a base di glutine di frumento) e il concetto che essere vegani è una figata pazzesca.
Ecco, questa rubrica di Beat & Style sarà una piccola guida per vivere vegan e felice in un mondo di persone che stanno piano piano prendendo coscienza ma che ancora mi chiedono:
“Ma il tonno, lo mangi?”.
Cover artwork: foto di Jacopo Ardolino e lettering di Momusso