Gli dico, durante una distopica round table virtuale (che Gianluca ha comunque condotto secondo il suo approccio abituale, caloroso, ironico, gentile) che al netto delle regole commerciali, mai come durante un lockdown avevamo bisogno di musica nuova, e che probabilmente la sua è la scelta più generosa verso tutti noi, chiusi, come mai prima, nella nostra bolla. “Sì – mi risponde convinto – e ci devo credere fino in fondo, senza falsa modestia. Questo disco, sono convinto, porta con sé questo genere di potere, e lo so perché tante persone me lo hanno detto a chiare lettere, a gran voce. S’è tanto parlato, in questi giorni, del fatto che la musica, il mondo dell’arte e dell’intrattenimento siano marginale rispetto ad altro, forse perché non è mai passato il messaggio che fuori dalle apparenze e dai privilegi, c’è una gigantesca parte di fatica, di lavoro, e di lavoro di squadra. Nel mio caso, senza contare le persone del booking e dell’etichetta, parliamo di un’azienda di 14 persone, e la loro professione, la loro dedizione vale come tutte le altre. Lo paragono al settore dl turismo, perché se è vero che ci sono servizi essenziali, cibo, sanità, servizi alla persona, non possiamo liquidare quelli che danno benessere ai cittadini. E, ancora, bisogna anche far capire che se si fa questo mestiere, nel mio caso il musicista ma vale per attori, registi eccetera, non è perché si è stati baciati in fronte da Dio, ma anche perché ci si è fatti il mazzo, e non si è mollato, pure quando la meta era lontana”.
C’è una traccia, gli dico, che si intitola “In un certo qual modo” e che, nel caleidoscopio armonioso di generi del disco, fatto di urban soul, pop, guizzi elettronici, dance, lo riporta al rap, quello del 2007 di “Rivincita dei buoni” e che lui stesso, nella descrizione track by track di “Scritto nelle stelle” ha definito “casa”. E allora, quanto è importante, ogni tanto, tornare a casa? “Moltissimo. Se prima, però era più un pensiero del tipo “oddio, non ho fatto questa cosa, è proprio il caso mettermici”, ora è tutto talmente spontaneo che mi sento finalmente leggero, libero di muovermi tra un po’ di colori che fanno parte della mia tavolozza e di usarli, perché so che non verrò giudicato, che non troverò scetticismo. Ho dimostrato quanto ami la versatilità, per cui sono a casa quando faccio un pezzo che c’entra di più con l’house, quando faccio un pezzo cento per cento rap. Oggi mi sento più a mio agio con me stesso, artisticamente e non, perché ho abbracciato il fatto che sono diverso, e non potrei fare nulla in nessun altro modo”. Facciamo fatica, o evitiamo del tutto, di pensare al futuro, e se lo facciamo sono i quando e i perché a martellare la testa, mentre il suo desiderio per il periodo che verrà è molto semplice, “perché l’ultima cosa che ho fatto prima del lockdown è stata chiudermi in studio con la mia band per preparare i concerti, e si era creata un’atmosfera davvero magica, perciò vorrei solo rivedere la mia squadra e tornare a suonare”.
E la stella, che rimanda al titolo, che più lo ha guidato, negli ultimi anni di un percorso artistico che nel 2014 ha virato, con “Orchidee”, verso nuove ispirazioni, poi consolidate nel bellissimo “Mezzanotte” del 2017, non è una sola, “ce ne sono state, per mia fortuna, tante nella mia vita, ma non posso, oggi, non menzionare due amici speciale: una è Beatrice Sinigallia, la mia vocal coach, un’amica fidata che negli ultimi anni mi ha tanto, tanto aiutato a migliorare nel canto, ma anche nella mia evoluzione mentale, a convincermi ad andare verso cose che lei vedeva mentre io ancora no; l’altra persona cruciale nell’ultimo anno è stato Rocco Tanica, che oltre ad essere un amico prezioso è colui che più mi ha consigliato, dall’alto del fatto che è un genio, punto”. E si è parlato di benessere, materia delicata, difficile da manipolare, e così gli chiedo, dopo aver saltato agilmente il tema del futuro, come cerca e riesce (perché ci sta riuscendo, Gianluca, altrimenti non avremmo “Scritto nelle stelle” di cui godere) a stare bene, alla faccia della quarantena. “Cercando di organizzare – risponde senza esitare – la mia giornata il più possibile, riempiendola anche di cose che prima non avrei fatto perché mi sembrava superflue, come costruire un Yoda di Guerre Stellari di 68 centimetri della Lego. Dedico il tempo a cose concrete, oltre a ciò che devo fare di lavoro, per tenere la testa bella occupata, per esempio ho ricominciato a studiare pianoforte, con un corso on line, e il resto è darmi delle scadenze precise, perché so che la confusione non è una cosa buona per il mio umore.”
Mi sento fortunato, perché ho dalla mia la creatività, che è un’ottima compagna, e non devo convivere con l’angoscia di chi, per esempio, ha un bar, un’attività e non sa come, quando e se potrà tornare al suo lavoro”. “Si diventa grandi, le cose brutte ti consentono di avere un punto di vista diverso sulle cose: “Cosa resta di noi” e “Champagne” sono due tracce del disco che parlano della fine di qualcosa, e se in passato avrebbero avuto un forte impeto di recriminazione, oggi raccontano il superamento e l’accettazione del dolore. Non voglio più dare la colpa, perché non è più importante, la rabbia è svanita, mentre c’è l’abbraccio dei difetti e delle fragilità”. E allora, come scrive Ghemon a conclusione della sua narrazione dell’album, “come dicevamo, le stelle hanno posto la sfida. Ci si mette in gioco e, sperando nella Buona Stella, si va. Anche se in fondo chi sa stanotte che cielo c’è. Ma senza difficoltà, in fondo… .