Novembre scorso è stato animato da un bel po’ di nuove uscite discografiche che hanno dato sapore ai nostri venerdì. Tra i progetti indipendenti più interessanti c’è stato il ritorno di Bjrg (ex-Berg) con “Skin Deep”, un concept album di nove tracce pubblicato da INRI. Fedele alle influenze trip-hop e new wave, l’artista torna sulle scene a tre anni di distanza dall’EP “Solastalgia” senza aver perso uno dei suoi tratti distintivi più marcati: una voce duttile che si moltiplica e intesse musica con il solo ricorso a due microfoni, una loop station e dei pedali delay.
Prima di vederlo volare a Berlino per l’apertura del concerto di Frankie Hi-nrg, noi di Beat&Style non abbiamo perso l’occasione di intervistarlo, parlando di musica e non solo!
Ciao Bjrg! Partiamo con una domanda facile facile: da dove nasce questo nome d’arte?
Agli esordi feci un EP sui confini. In tedesco Berg significa “montagna”, che è una primordiale forma di confine tra terre emerse. Quindi ho adottato questo nome in relazione al primo EP che era incentrato su confini politici, ambientali e di genere. Ho cercato di connettere il concept album con il mio nome d’arte, che è diventato parte del concept stesso. Tuttavia, in molti mi chiedevano come trovarmi su Spotify, dove di Berg ce n’erano davvero troppi. Si è manifestata la necessità di un piccolo aggiustamento tecnico e mi sono ribattezzato BJRG [pronunciato “Birg”].
Andando al di là del nome BJRG, com’è nata la tua personalità artistica?
Un tempo cantavo in una band, in italiano, e già allora facevo uso di una loop station per la voce, interagendo con gli atri strumenti. A un certo punto la band si è sciolta, mi sono ritrovato da solo in sala prove (situazione a cui ero già abituato a causa di inenarrabili ritardi altrui) e ho iniziato a sperimentare. Nel momento in cui si è sciolta la band, ho deciso di provare a coltivare questo progetto in barba ai numerosi pareri contrari e disincentivanti. Ho deciso di andar oltre le resistenze e oltre gli ostacoli compositivi che si hanno in questi casi, dov’è facile cadere in una produzione di moto circolare, quasi mantrica. Per farti un esempio, la musica di Tash Sultana, una loop station artist australiana molto brava, ha un po’ questa caratteristica. Io, invece, mi sono dato l’obiettivo di ottenere un risultato più lineare e meno ripetitivo.
Un primo riferimento musicale lo hai già svelato: Tash Sultana. Andando su dei nomi più main stream, si nota un’impostazione alla James Blake. Quali altri punti di ispirazione hai avuto?
James Blake sicuramente. Però ne ho anche nel repertorio italiano, da Quintorigo sino al progetto solista di John De Leo, che sicuramente è uno dei migliori cantanti italiani in quanto a voce e sperimentazione. Si può dire che sia il vero erede di Demetrio Stratos. In genere mi piacciono le cose che hanno idee interessanti, che hanno delle dinamiche improvvise alla Alt-J e Tune-Yards. Mi piacciono le cose che non sono tutto il tempo uguali a sé stesse, ma che tentano di creare degli stop da cui ripartire con qualcosa di nuovo di volta in volta.
Questo principio di evoluzione si rende evidente anche durante i tuoi live. Ho avuto modo di assistere alla tua performance al circolo Ohibò e notare come ci fosse un’evoluzione scenica precisa e studiata. Cosa si cela dietro questa struttura performativa?
Il live l’ho sviluppato durante il tour in Marocco, esperienza pazzesca in cui ho iniziato la messa a punto di questo gioco di luci. Sia a livello vocale che luminotecnico ho voluto lavorare su delle particelle subatomiche, come se venissero un po’ smembrate le linee vocali, rimandando al concept attorno al quale verte tutto l’album, che ha a che fare con la pelle e la fisica quantistica. Sembra una premessa bizzarra, ma lo è molto di più la scoperta che feci tempo fa su un libro di fisica: noi non tocchiamo mai niente. Gli atomi delle cellule della nostra pelle arrivano a un massimo di 10-9 metri di distanza (o qualcosa del genere), ma non si toccano mai. Quello che percepiamo come tatto è in realtà una repulsione elettromagnetica. E’ una roba che mi ha scioccato. E che ho preso come ispirazione per l’album, lavorandoci su molteplici livelli, sia in fase di produzione che durante i live.
Parliamo ora del nuovo disco pubblicato per INRI, “SKIN DEEP”. Si tratta di un concept album in cui si intrecciano un molteplici di idee, su diversi piani, più o meno evidenti e tutte sostenute da un nucleo comune: la pelle.
L’idea di perno è la pelle, ovvero un nuovo confine, elemento di continuità con il primo album, stavolta declinando il progetto in maniera più personale, con dei pezzi molto intimi. Ho voluto denudarmi un pochino. Ho fatto il contrario di quello che si fa di solito, dove si parte da sé per poi espandere il proprio vocabolario e le tematiche verso l’esterno. Invece io sono partito in maniera differente, ho sentito di aver saltato un passaggio e ho deciso di ricalibrarmi, stavolta su me stesso, senza tuttavia smettere di guardarmi attorno e diventare ego-riferito.
Di certo non ti sei limitato nei contenuti: tra i temi racchiusi in “SKIN DEEP”, per darne un esempio, una canzone è ispirata dalla storia di Steve Biko (attivista sudafricano).
Esatto. Vidi un film su di lui che si intitola “Grido di libertà”, con Denzel Washington. Il film mi colpì molto, tanto che poi andai in cerca di materiali che ne parlassero presso la biblioteca di Cologno Monzese. Ho amato quel personaggio, contemporaneo di Nelson Mandela, per il modo con cui ha saputo estirpare il sentimento di inferiorità interiorizzato dalla sua gente e per come ha affrontato l’apartheid. Non è mai stato remissivo. Ispirato dalla sua storia, ho cercato di racchiuderne l’essenza in una canzone a partire dal suo titolo, “but”. In inglese significa “ma”, è una congiunzione avversativa, ovvero un qualcosa che unisce pur mantenedo l’intenzione di creare contrasto e opposizione.
I titoli delle canzoni sono parte anch’essi del concept. Se li metti in fila, formano la frase “out in the flesh nothing but skin is unseen firework”.
La tracklist si forma estrapolando il titolo di una canzone a partire dal testo di quella che la precede. Questo per soddisfare un mio desiderio, quello di creare un concept album così come erano quelli di De André. Solo che lui creava una continuità sonora tra le canzoni, facendo partire la traccia seguente dalla tonalità in cui terminava quella prima. Io, invece, ho escogitato un sistema di concatenamento differente, che mi ha permesso di essere più libero dal punto di vista compositivo e di non cascare in composizioni mantriche e ripetitive. Il senso di ciò che si viene a creare unendo i titoli – “out in the flesh nothing but skin is unseen firework” -, beh, è una raffigurazione poetica della scoperta da cui ho tratto il concept: la repulsione elettromagnetica che noi trasduciamo come tatto diventa un’immagine di microscopici fuochi d’artificio.
Considerati i riferimenti dotti, le citazioni e il concept stesso di questo album, com’è il tuo rapporto con il grande pubblico?
Rifacendomi a Wilde, penso che non sia l’arte a dover andare dal pubblico, ma il pubblico a doversi educare all’arte. E non lo dico da artista, bensì da pubblico. Io stesso quando vado a concerti o ascolto altri artisti, lo faccio perché sono alla ricerca di stimoli. Questo non significa disprezzare ciò che è “pop”, ovviamente. Non sono di certo uno di quelli che si offende a sentirsi definito così, come se il termine indicasse qualcosa in contrapposizione a ciò che è buona musica.
Come hai accennato prima, il concept dell’album è stato sviluppando anche sul piano visivo. Inoltre, una volta smessi i panni di BJRG per tornare ad essere Luca, il mondo visual è anche parte del tuo lavoro. Quanto pensi sia rilevante l’immagine di un artista al giorno d’oggi?
Oggi giorno l’aspetto visivo e la questione dell’immagine fa parte degli elementi che compongono un’artista più di quanto non fosse prima. E’ l’era di Instagram e Facebook, quindi delle immagini. Ci si deve adeguare, tant’è che il mio profilo Instagram è stato hackerato non molto tempo fa, mi è stato sottratto e ne ho dovuto per forza fare uno nuovo (@bjrgvoicesolo) partendo da zero. Mentre per quel che riguarda l’album, proprio perché riconosco l’importanza del piano visivo, abbiamo esteso il concept anche a quella dimensione realizzando una cover in cui si vedono due segni in acrilico tracciati a mano, quindi a pelle, rimandando nuovamente al main theme spiegato poc’anzi. E parlo al plurale perché nella realizzazione di quanto appena descritto è stata fondamentale la collaborazione di Paolo Ermanno, con cui sto lavorando da un paio di anni e che si è occupato anche del video di “Skin”, girato in Calabria.