Il talent televisivo è un’indiscutibile piattaforma di scouting. Da lì han preso forma svariati progetti discografici, alcuni lautamente noti al grande pubblico, altri meno “rumorosi” e più vicini alla scena indipendente. Al di là di etichette e pregiudizi, è tempo di aprire le orecchie e farsi incuriosire da coloro che, nonostante un’apparente sconfitta ai tempi del talent, si sono fatti strada e hanno dimostrato di avere talento al di là del talent! Oggi vi presentiamo Davide Sciortino, noto come Davide Shorty!
Dopo essere espatriato a Londra, dove vive tuttora, Davide Shorty ha partecipato a XFactor 9 sotto la guida di Elio (con il quale ha appena rilasciato il singolo “Canti ancora!?“). Dopo aver ottenuto la medaglia di bronzo, ha dato seguito all’album d’esordio “Ragazzo” con un album solista, “Straniero“, e due album in stretta collaborazione con il collettivo torinese Funk Shui Project: dopo “Terapia di gruppo“, eccoli tornare con “La Soluzione Reboot“.
Ciao Davide. Sei stato il terzo classificato della nona edizione di XFactor, ma ai tempi avevi già svariate esperienze alle spalle. Alcune persino internazionali.
Dove ha inizio il tuo rapporto con la musica?
In casa sono sempre stato esposto alla musica. Si ascoltavano tanti dischi. Inoltre mio zio da giovincello faceva il cantautore e aveva sempre strumenti in giro per casa. Quand’ero piccoletto ha portato a casa nostra un pianoforte in disuso e sono cresciuto con questo pianoforte sotto le mani e l’idea del musicista fissa in testa.
A un certo punto l’idea di essere un musicista si è fatta più concreta, sino a sentire il bisogno di spostarsi all’estero. Tracciamo brevemente quegli anni.
La chiave di svolta è stata la scoperta del rap, in cui ho trovato qualcosa in cui potermi esprimere pienamente e con cui potevo lamentarmi delle cose che non mi andavano bene. Potevo denunciarle.
Ho girato la città in cerca di persone che facessero quel genere, sino ad imbattermi in Othelloman, uno dei pionieri dell’hip-hop palermitano, che decise di produrmi un disco (ndr. Piccolo). Quella è stata la mia iniziazione.
Poi è seguito U Tagghiamu ‘Sti Palluni…? con i Combomastas, che parla dei quartieri disagiati di Palermo attraverso i personaggi che lo abitano. Quel pezzo è stato un piccolo fenomeno mediatico. Mi ha permesso di comparire in televisione, tipo a Scalo 76 Cargo su Rai2. E dopo quell’esperienza, ho deciso di trasferirmi a Londra, sentendo Palermo calzarmi stretta.
Una volta arrivato a Londra, hai trovato ciò che stavi cercando?
Assolutamente sì. Sono arrivato in quella città con l’idea di capire come fanno musica al di fuori dell’Italia e sono finito con l’avere una buona carriera, facendo da corista a Jordan Rakei e andando in tour con Jack Steadman, frontman del Bombay Bicycle Club.
Parallelamente, ho fondato i Retrospective For Love, con cui ho visto tanti palchi in giro per l’Europa e pubblicato un po’ di cose.
Stando all’estero, hai vissuto sulla tua pelle la condizione dello straniero, concetto sul quale hai costruito l’album Straniero. Ma in che modo essere straniero può diventare arte?
Nel mio caso è stata una componente fondamentale.
Io credo che nessuno sia straniero e che tutti lo siano. Mi sento fieramente straniero, tanto qui quanto nella mia nazione, e sono curioso verso la realtà che mi circonda. Poi stare in un centro come Londra mi ha dato modo di non sentirmi abbastanza, spingendomi a superare i miei limiti, lavorando, studiando, migliorandomi di continuo. E anche accettando di non essere perfettamente conforme a ciò che avrei voluto essere.
Il mio essere straniero si sente nell’accento, nel modo con cui scelgo determinate parole… Sono imperfezioni che possono essere trasformate in particolarità, che è parte di ciò che fa l’artista: trasformare il difetto in qualcosa di unico e potenzialmente bello.
Avendo già messo le basi per una carriera a Londra, cosa ti ha spinto a tornare in Italia per partecipare a XFactor?
Avevo voglia di fare un disco in italiano, ma in Italia non mi conosceva ancora nessuno. Così ho provato con XFactor ed è andata. Volevo sfruttarlo come un canale con cui farmi conoscere e portare l’attenzione su come, purtroppo, l’Italia non tratti la musica e la creatività come un vero e proprio lavoro.
E ciò ci permette di fare una digressione sulle misure di rilancio del Paese piuttosto che alle iniziative come #LaMusicaCheGira. Ne hai avuto notizia da fuori?
Sono aggiornatissimo su tutto. In fin dei conti, anche io lavoro in Italia e sono titolare di partita IVA, quindi sono perfettamente aggiornato. Pensa che non sono riuscito a ottenere il misero bonus di 600 euro perché non avevo abbastanza live aperti. Non avevo fatturato abbastanza per essere aiutato, che paradosso.
A quanto pare il messaggio che ti sei preso a carico entrando a XFactor è ancor oggi valido e oltremodo attuale.
Sicuramente! C’è ancora tanto da dire e da fare. Ma sempre con amore.
Ormai evito di adirarmi, o quantomeno tento di indirizzare la rabbia nella musica piuttosto che urlare allo scandalo perché il Presidente del Consiglio descrive gli artisti come persone che ci fanno divertire. Nessuna categoria di lavoratori può essere minimizzata o ridotta a una frase del genere. E non soltanto per chi ci mette la faccia, ma soprattutto per chi sta dietro le quinte e rende possibile l’avvenire della cultura e dell’arte.
Tornando a XFactor: Com’è stato entrare in quel contesto mediatico?
Bello e brutto. Brutto perché la musica non è così centrale come ti aspetti che sia e perché la percezione di quello che sei per alcune persone cambia inesorabilmente senza che tu stia effettivamente cambiando.
Allo stesso tempo è bello perché ti offre una lente di ingrandimento con cui analizzarti e correggerti. Bello perché è uno scambio di tante esperienze, tanta musica. Ed è stato un po’ come fare il militare assieme agli altri ragazzi.
Però non hai alcuna tutela psicologica. Il dopo ti spacca la testa a metà e sei tu da solo a dover trovare un modo con cui gestire quella risonanza mediatica che hai ricevuto.
Tu come hai imparato a gestire i postumi da talent?
Io sono andato in depressione per quasi un anno, subendo un calo bestiale. Sono tornato a Londra. Ho iniziato a lavorare con Filippo Giorgi e con MacroBeats, scansando quanti più compromessi possibili, ma non sempre riuscendoci.
Poi, piano piano, ho ritrovato l’equilibrio. Lavorare a “In the loft” con i Funk Shui Project ha aiutato molto. Già alla prima session con loro è nata l’idea di fare un disco assieme, poi concretizzato in “Terapia di Gruppo”.
Questa vostra collaborazione si è consolidata nel nuovo album, La Soluzione, ora rilanciato come La Soluzione Reboot. Ma quella che ci state dando è una soluzione a che cosa?
A un sacco di problemi, alcuni che ci siamo creati da soli, altri che la vita ci ha messo davanti. E’ una soluzione a un periodo, alle nostre vite, al nostro lavoro e al nostro modo di vivere i rapporti interpersonali.
Ed è quel disco di cui avevo bisogno, scritto tra una data e l’altra assieme ai ragazzi. E dacché doveva essere un EP, si è evoluto in album e ora nella sua versione deluxe, praticamente.
Cosa vi ha spinto a metterci sopra le mani?
Avevamo il sogno condiviso di avere un disco più suonato che campionato. Così poco prima della quarantena ci siamo chiesti “raga, ma lo rifacciamo?”. E l’abbiamo rifatto, riarrangiando i pezzi, togliendone uno e inserendone un’altro. E ha funzionato!
Già La Soluzione si è rivelato essere quel disco di cui avevo bisogno. Scritto tra una data e l’altra assieme ai ragazzi, era pensato per essere un EP, si è evoluto in album e ora nella sua versione deluxe, praticamente. Sempre meglio.
Tra le novità del disco, Reboot è un ritratto di tutti noi durante la quarantena. Cosa ti ha lasciato quel periodo?
Tanta ansia, bro’. Tanta ansia.
Ma ho anche avuto modo di meditare molto e di creare. Ho realizzato un tape, intitolato Lckdwn tape e reperibile su Bandcamp. Ho fatto un sacco di video free-style legati al periodo. Mi è anche scappato un dissing sull’RnB a una testata giornalistica.
Mentre pochissimi giorni fa è uscito su YouTube un pezzo contro il razzismo e l’abuso di potere, che riprende una frase simbolica del caso Flyod: Non respiro.
Senti, per concludere mi sbilancio un po’: Preso per buono che sei avvezzo a mettere in musica contenuti di un certo spessore, non hai mai pensato di presentarti sul palco di Sanremo?
Sì, ci ho pensato. E chissà che non succeda presto.
Ma se andassi a Sanremo non poterei per forza un pezzo impegnato. Faccio sempre musica impegnata perché sono una persona impegnata. Non ho bisogno di Sanremo come pretesto per esserlo.
Ci starebbe, eh, ma la mia priorità sarebbe andarci con una bella canzone. Non mi importa che sia impegnata o meno.